In-espresso

Quando ero all’università tornavo spesso a casa in treno di notte.
Era un ritorno sgombero, leggero: un ritorno di valigie e borsoni semivuoti che tutti i tuoi duecentrotrentasei parenti avrebbero contribuito a riempire di vasetti sottovuoto alla ripartenza. Dopo quelle traversate L5-S1 non sarà più per me una coordinata per la battaglia navale.
La stazione di Bologna aveva luci gialle e palpebre socchiuse. Il bigliettaio allo sportello non parlava mai e non aveva mai fretta. Il bigliettaio allo sportello si divertiva a guardare la fretta degli altri.
-Un biglietto per Lecce. Carta verde-
Dopo il sottopassaggio buio si apriva il binario 14. Ancora più buio. La macchinetta obliterava con un gracchio rassicurante quando l’espresso delle 22.32 era quasi in partenza. Già stanco.
Stando attento ad evitare personaggi troppo più loschi di me sceglievo con cura lo scomparto che avesse qualche remota possibilità di non ospitare la scabbia. Spingendo la maniglia color ottone scastravo con colpi ben assestati le valigie dalla porta, ritrovandomi per il contraccolpo tra le braccia di una vecchia o del suo cane, ed issavo il bagaglio in alto provandone con generose pacche la resistenza in equilibrio.
Poi mi sedevo sul comodo similpelle marrone in direzione di marcia. Più che la studentessa carina che avevo adocchiato, e che sarebbe scesa tra Forlì e, al limite, Rimini, m’avrebbe accompagnato il simpatico odore dei calzettoni mensili di lana grezza del compagno di scompartimento che aveva deciso di liberare dalle sue scarpe sé e svariati altri esseri del regno animale. E che non scenderà, manco a dirsi, prima di Fasano.
Per cercare di far correre il tempo più del treno, ero solito portare con me un paio di succhi alla pesca o al luppolo, un tubo di pringles ed uno di ringo, la gazzetta dello sport e un mensile, tipo men’s health, di quelli che dicono che bastano cinque minuti di crunch al giorno per addominali da urlo e come far godere lei con 5 trucchi (è incredibile cosa possa fare una trousse!).
Ma siccome qualcuno chiedeva immancabilmente la cortesia di spegnere la luce, il 50% del mio potenziale veniva puntualmente annientato: la gazzetta al buio non credo sia rosa e la tecnica di quegli addominali miracolosi mi sarebbe restata per sempre preclusa.
Così mi ritrovavo attaccato ai tubi, solitamente già prima della partenza, nonostante mi sia più volte riproposto di centellinare le porzioni per intermezzare di gusto il viaggio. Il solo freno era rappresentato dall’imbarazzo della croccantezza dello snack a forma di patata che cercavo di smorzare attraverso qualsiasi evoluzione dei -dice- 43 muscoli facciali. Fortunatamente il signore di cui sopra, caduto in catalessi, avrebbe presto coperto i miei decibel intimiditi con i suoi torniti ronfi notturni.
Faenza, stazione di Faenza.
Sta di fatto che, dopo circa mezz’ora di viaggio, non restava che attaccarmi ad un paio di cuffie auricolari e ad una vecchia radio fm provando ad indovinare i pezzi in musica che dribblavano interferenze e scansavano gallerie.
Pesaro, stazione di Pesaro.
Nel disagio ennesimo di aver saputo bloccato il finestrino unico, provavo a farmi strada tra gli arti distesi degli altri occupanti per guadagnare uno dei seggiolini estraibili dell’angusto corridoio.
Ancona, stazione di Ancona.
Spesso l’unico diversivo, mentre i secondi si travestivano da ore, era la ricerca di un cesso non guasto per poi provare a centrare il wc mentre venivo sbattuto in alternanza verso le 3 o 4 pareti della camera iperbarica da piscio, che tali erano le sollecitazioni del treno in corsa che mi sentivo come uno che si era appena abbassato le mutande sul tagadà.
Pescara, altro giro, altra corsa.
Dopo aver ritrovato il mio vagone ed aver fatto ritorno nel mio scompartimento, ormai completamente deossigenato, riuscivo ad addormentarmi, o più probabilmente a perdere conoscenza, nell’ultima ora di buio.
San Severo, stazione di San Severo.
Quando arrivi in Puglia sei a metà del viaggio. Meno, con quell’Espresso: con i suoi tempi geologici, percorreva le rotaie adriatiche fermandosi in qualunque punto di qualunque posto: capoluoghi, città, paesi, paesini, paesotti, masserie, rioni; anche case, credo. Con lo stesso rumore sincopato che ti resterà nelle orecchie per tutta la permanenza al tuo paesello.
Ma poco più giù di quel dormiveglia la gioia immensa di aprire gli occhi e riscoprirsi in Puglia è riassunta in un fotogramma: la distesa sterminata di ulivi nella cornice del finestrino di quel lentissimo Espresso, che scorrevano nel loro incedere laterale a perdita d’occhio,
sotto tonalità d’azzurro che avevi dimenticato potesse essere e sopra una terra d’un rosso ch’è la vita che ora non ti sfugge.
Quella insopportabile lentezza che sfregava le rotaie adesso ti pare di volerla ancora più lenta.
Tra quei rami un’arancia di sole irradiava l’immensa energia delle sue prime ore, dentro ai tronchi, dietro i muretti a secco, sopra scorci di blu e piccole barche.
Che ti veniva da piangere e da ridere, e da ringraziare.
Non avevi bisogno di cartelli stradali: eri a casa.
Loro erano sempre lì: secolari come un monumento, pregni di storia, robusti, fieri.
E sempre i primi a darmi il benvenuto.
(Ora pare ce li portino via. Spogliandoli. Spogliandoci. Pare che una folle corsa li porterà con sé. Ed io non so dove. Pare che il sole dovrà trovarsi altri profili da disegnare. Ed io non so perché)

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