Intramare

It’s the final countdown!
Le cassette, gli anni ottanta
Al pallone sulla spiaggia
Qualche mamma che s’arrabbia
Per le squadre fate a tocco…
Cocco fresco, mandorle cocco! 
Era caldo e poco mosso
Supertele, bianco o rosso.

Da una casa uscendo a razzo,
ampio living e terrazzo,
con tre camere intramare:
-È vietato qui giocare!-,
strillò un uomo nerboruto.
Già capire avrei dovuto,
in quel luogo di endorfine,
quanto è labile il confine
tra abusivo, spesso ammesso,
e ciò che non ci è concesso.


19 Marzo

Oggi è la festa del papà.
Io non sono mai stato bravo nel fare gli auguri, cercandone formule.
Io non sono mai stato bravo nel manifestare i miei sentimenti, declinandone modi.
Non sono mai stato di quelli capaci di rendere chiare tutte le cose che mi abitano dentro.
Di renderle, seppur a spicchi, esplicite ad altri animi e visibili ad altri occhi.
E oggi nemmeno, ovviamente. Ciao.


Punto e altrove

Crepare di maggio non ci sono prove
Ci vuole coraggio andar punto e altrove

Un pensiero ostaggio di giornate afose
Un triste villaggio e il perché delle cose

Nel piccolo viaggio che mi fu concesso
Svanisce, miraggio, col tempo, l’adesso


Piani

E non ho le energie per salvarmi,
il piano B a cui dovevo rifarmi.
Non ho pezzi di me che ho congelato,
tutto esposto al modo consacrato.
Nel dubbio che qualcosa esista veramente,
sintesi o prolasso del tutto o del niente.

E non è utile capire.
E non serve sputare via qualche parola,
che assomigli a quanto noto in gola.
Nemmeno farti felice mi consola.
Ho solo un’anima e un’anima sola.


Non essere

Mi cospargo delle mie dipendenze futili
mentre non sono più nemmeno l’attesa
di quello che non sarei diventato

Decadono gli alibi delle mie inappetenze

Il principio rigido che elessi riparo
resta vapore pallido sul mare che ogni sera saluto
Senza essere nave che salpa
Senza essere porto che accoglie.


Ho visto Maradona

Perché, scusa, anche tu puoi morire?

Lo ha fatto nel giorno in cui se ne vanno i ribelli.
Non contano più le parole biascicate da quel volto tumefatto dai suoi demoni.
Perché avete ragione voi benpensanti: Maradona non è un eroe, non è un esempio, non è un modello di studio interessato all’assoluzione di questa o quella corte morale.  
Maradona è simbolo, proiezione di quanto un miliardo di noi ha stupidamente immaginato di ripetere. Anche solo una volta. A ridosso dell’area di rigore o più vicini al cerchio del centrocampo, sulle note di una canzone che conosciamo apposta o negli intervalli tra macchine e marciapiedi.  
Maradona è iconografia, effige trascendente la sua stessa umanità indisponibile ai più, oltre la sua inconsapevole essenza, oltre la sua carne di fibre divine, capace di volteggiare, tra stinchi e pedate, per la sua voglia bambina di restare in piedi.
Elasticità che non si piega, genialità che non si spiega.
Estro senza accademia, che in un lampo trasforma il più bizzarro dei suoi ghirigori nel gesto utile al trionfo di un popolo.
Maradona è l’idolo di spalti rigurgitanti che torna con le scarpe slacciate a mescolarsi al fango delle periferie. A godere di un altro gol quando si spengono le luci.
Maradona è il ragazzino che vuole diventare il più grande. 
Maradona è il più grande che non esita a tornare ragazzino.
Maradona è rivalsa, per tutto ciò che sarebbe potuto essere e non è stato.
È l’altare improvvisato dei traditi da Dio.
Maradona è la metafora perfetta del sud del mondo, nei suoi splendori, nelle sue miserie, nelle sue contraddizioni. Quel sud che c’è nel fondo di qualsiasi parte del mondo, e in almeno un anfratto di ciascuno di noi. 
Maradona è il mito già senza la morte che crea il mito.
Aldilà del bene e del male.
Rabbia e fantasia.
Gioia dispensata senza nulla chiedere in cambio.
‘No importa que hiciste con tu vida, sino lo que hiciste con las nuestras’. 
Si pianga, o si continui a festeggiare.


Senso unico alternato

Ora ricomincia. Potete restare, se volete. 
A guardare quello che sarà, e forse quello che eravate.
Mi piace questa strada strada. S’allunga, corre, s’apre, si ritrae. E poi si nasconde. 
Siete voi, quelli laggiù. O forse no.
Una strada, una storia. O forse no.
Per quanto la strada che ci è concessa sia sempre una, non è mai la stessa. Per quanto la storia che ci hanno raccontato ci sembri certa, non è l’unica possibile. 
Che poi non è nemmeno la fatica di guardare oltre… 
Basta spostarsi. Anche solo un po’. Sporgersi, ritrarsi. 
Elaborare nuove distanze. 
Prendere posizione, sapendo di poterla cambiare. 
Che è il solo modo a noi concesso per giocare col tempo. 
C’era una volta, ma non si sa quale…
C’era una donna. No, erano due: c’erano due donne, un uomo, e una ragazza… 
C’era un pezzo di strada, che è linee infinite di infiniti punti. 
C’erano le parole, semi che crescono o pensieri da far rimanere. 
C’era lo spazio. Lo spazio utile per poter andare. 
E una clessidra rotta a misurare l’attesa…  

Portato in scena da Ilaria Genatiempo, Francesco Spaziani, Martina Zecca, Desiree Bari. Regia Francesco Zecca.
Alle mie parole piace stare in buona compagnia.


Ad Ennio

Ho sempre pensato, nell’estratto conto della mia vita, di avere avuto più uscite che entrate. La sensazione che il mio do ut des non abbia l’equilibrio meritato.
Fatico a pensare ai miei debiti, più che ai miei crediti.
Era una sera di giugno di 2 anni fa, sotto il cielo non ancora convinto del buio delle Terme di Caracalla: la mia contabilità emotiva trovò per un attimo una compensazione.
Un signore anziano dall’incedere tanto incerto quanto nobile, entrava tra gli elementi che avrebbe diretto. Molti in più dei 150 che di lì a poco avrebbero messo di nuovo in note i suoi spartiti: c’erano anche aliti di vento e versi di gabbiano, e tutto sapeva di musica, e tutto sapeva di eternità.
Lo respiravi, l’eterno, in ognuna delle vibrazioni d’orchestra, in ognuno dei suoi passi di cristallo, che sapevi poteva essere, ognuno, l’ultimo di questo fulgido cammino terreno.
Ennio Morricone ha composto trai più grandi capolavori della musica contemporanea, fino a non riconoscere i limiti della contemporaneità; colonne sonore trascendenti le pellicole che avrebbero dovuto soltanto accompagnare.
Ma questo è nulla, nella mia biasimevole gerarchia delle priorità.
Ennio Morricone mi ha concesso di usare le sue opere per il più egoistico degli scopi; mi ha concesso la possibilità di fare, sopra i suoi pentagrammi, qualcosa che non so per quale sovrastruttura emotiva non mi sarebbe stata altrimenti concessa: piangere. Su quei violini o su quell’oboe, che ebbi la fortuna di ascoltare quella sera di giugno. Su quelle note che ti prendono il cuore malmesso avendone cura come qualche dio dovrebbe, su quel pizzico d’archi e soffio di fiati che, forse, è la vita stessa che, con grazia, vola via.

 


Alla fine delle pizze (io li-evito)

Perché, scusate, voi avevate dei dubbi?
Di nuovo troppo, troppo umani.
Perché, scusate, voi pensavate ad un rinascimento della nostra emotività?
Perché, scusate, voi pensavate che a star lontani saremmo diventati tutti oculati filantropi? Pizze.
Pensavate che questa nuova primavera del genere umano ci avrebbe visti nuotare coi delfini trai canali di Venezia, passeggiare coi cinghiali giù dall’entroterra sardo, zompettare grati coi daini affacciatisi alle viuzze deserte d’Abruzzo? Pizze.
E l’aria limpida, e i mari tersi… Pizze.
Tutta questa umanità alla rinfusa, mascherine come caschi a mo’ di girocollo quando si andava in tre sulla vespa.
Ma io, io lo sapevo. Lo sapevo quello che eravamo. Lo capii un giorno lontano dei miei anni di grembiuli blu col fiocco celeste.
Un pomeriggio di quelli come questi, ma senza paura di quello che sarebbe stato. Di quelli che finivano la scuola. Dentro quel sole che profumava di un’estate che, sicuramente, non sarebbe mai finita.
Avevo appena convinto i miei a lasciarmi andare in bici dai nonni. Avevo un’Atala cross. Tre marce e sellone. Casa dei miei nonni era una base spaziale su cui atterravano i miei amici. Quel pomeriggio però erano tutti chiusi in casa: era stato il giorno delle pagelle, lockdown decretato a schiaffi. Io no: io ero bravo. Bravissimo. Quel voto con la penna rossa che fluiva dalla mano della maestra Maria sempre uguale, pie’ di pagina dopo pie’ di pagina.
Gli altri erano dentro, quel giorno, e io fuori. Per tutto l’inverno era stato spesso il contrario.
C’era però anche F.N., sorprendentemente sopravvissuto alle pagelle perché i suoi genitori erano di turno dai suoi nonni, dirimpettai dei miei.
Era un mio compagno di classe, F.N.; avrebbe fatto un dignitoso mestiere di fatica manuale: nessuno gli avrebbe mai detto “è intelligente ma non si applica”.
La nostra maestra ci aveva suggerito di lasciare due paginette in bianco da riempire, nell’estate infinita tra la terza e la quarta elementare, di stelline: una per ogni azione buona. Prodromi dell’autovalutazione.
F.N. mi venne incontro portandosi dietro il quadernino a righe con le pagine vuote e la sorellina con la gonnellina a quadretti, di due anni più giovane.
-Miche’- mi fece all’orecchio -ho un’idea: perché non buttiamo mia sorella sott’a Patula Cupa e poi la riprendiamo!?! Così mettiamo una stellina a testa-.
Io pensai che la somma algebrica degli eventi, pari a 0, non giustificasse il merito.
E che l’umanità non aveva scampo.
Patula Cupa, per i non autoctoni, è un vasto territorio palustre, moderatamente depresso, sovente umido e teatro di malriusciti tentativi di bonifica. Mi ci rivedo molto.


Quaranteena ed altre chiusure

Io penso di essere piccolo e inadatto ogni volta che inizio qualcosa, in qualsiasi ambito. Faccio i conti con le mie ansie, le mie inabilità, le mie insufficienze.
Raccolgo, pondero, setaccio al vaglio dei miei dubbi l’esiguo materiale di cui dispongo ogni volta che devo esprimere una mia personale opinione, coprendola, cagionevole qual è, con duettré preamboli e altrettanti “premesso che”…
No, aspe’, questo non c’entra… Voglio dire…
Ricapitolando.
Se ho ben capito, partendo dall’indice, perché il medio è inelegante:
C’è D’Urso Barbara, conduttrice sparaflashata specializzata in seminari sul lavaggio delle mani, che manda l’inviata in elicottero, o a piedi, non so, all’inseguimento di un impavido runner da spiaggia tipo CSI, o Mic Biuchennon. Come non sapete chi è Mic Biuchennon?
Ah…  si scrive Mitch Buchannon.
Sì, ho fatto una rapida ricerca online. Visto? A volte basta wikipedia. Facile, no?
Che poi, D’Urso Barbara, non so se prima o dopo, si mette a pregare in diretta tv con Salvini Matteo, di mestiere politico d’opposizione (è un mestiere), uno che dice cose e indossa felpe. Cambiandole ogni giorno. Entrambe.
“Lo Stato e la Chiesa cattolica sono, ciascuno nel proprio ordine, indipendenti e sovrani”.
Questa cosa scritta storta poco sopra è parte dell’articolo 7 della Costituzione, che enuncia il principio di laicità dello Stato.
La laicità dello Stato è sacra. E non è qualcosa di anticlericale. Men che meno di anticristiano. Servirebbe a garantire rispettiva autonomia a ordinamento statale e fenomeno religioso, a non dare in pasto la spiritualità ad appetiti pubblici. Scusate, mi perdevo in piccolezze…
Poi c’è Giordano Mario, direttore delle strategie e dello sviluppo dell’informazione delle reti mediaset. Giordano Mario, con voce piritata, inscena una gag esilarante facendo finta di non gradire un raffinato parere di un signore ben vestito rispondente al nome di Feltri Vittorio, direttore del quotidiano Libero e che taluni hanno proposto alla carica di Presidente della Repubblica per il mandato più recente.
“Tutti hanno diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione.
La stampa non può essere soggetta ad autorizzazioni o censure”
.
Questo è parte dell’articolo 21 della Costituzione, che enuncia il principio della libertà di stampa.
La libertà di stampa è sacra. E non vuol dire che ognuno possa scrivere e dire quel che gli pare. Tutt’altro: nella scrittura cresce il peso delle parole, perché delle stesse parole di cui siamo padroni quando appartengono al nostro pensiero, diveniamo servitori, una volta divenute inchiostro e significato. Scusate, mi riperdevo in piccolezze…
Ma, sapete?, io, a loro, non ho niente da dire.
Perché bisogna tessere, aldilà dell’essere, per partecipare. Con caustica costanza capire da chi, e mai dove, andare. Bisogna chiedere, per partecipare. Con insistenza. Senza vergogna. Promettere, se del caso, contropartite, anche se indisponibili.
E a bussare tante volte, alla fine, vi verrà aperto.
Io, a loro, non ho niente da dire. Niente. Perché sono nostra degna, e più alta, rappresentanza. Per voto, somiglianza o aspirazione.
Io a loro, a quelli di prima, non ho niente da dire. Perché sono ciò che gli permettiamo d’essere, e ciò che ci permettiamo d’essere noi, nel nostro più striminzito epilogo di dispensatori d’opinione.
L’opinione aprioristica e oppositiva di chi non sa.
Perché per farci un’opinione, su qualsiasi cosa, abbiamo smesso il fardello del pensiero, dell’informazione. Basta un copia incolla senza ricerca delle fonti. Sul grande fratello come sulla crisi mediorientale, sul campionato di calcio come sulle tematiche razziali, sulla microbiologia come sull’economia internazionale. E questo è il terreno insalubre su cui fonda la propria solidità l’impianto politico, dirigenziale, comunicativo. Del resto, se loro, quelli di prima, sono arrivati dove sono arrivati opinando senza opinione, perché dovrei farlo io, comune plebeo della rete?
Io non ho mai creduto nella meritocrazia, non l’ho mai creduta umanamente conciliabile. Non sarà così nemmeno per quei cristi che bardati delle mancanze degli ultimi vent’anni di gestione pubblica sopravviveranno ai loro colleghi di corsia.
Io non ho mai creduto nella meritocrazia. Ma ho sempre creduto nel merito. Di entrarvi, nel merito. Discutere. Capire. Provarci, almeno.
Vorrei andarmene a farmi sbranare da qualche leone connivente nella savana.
O su Marte per sentirmi meno alieno.
O ventimila Leghe sotto i mari, minimo.
Ma la verità è che mi manca il coraggio per non essere, così come quello per essere. E rimango nel limbo, amorfo e basito. Perché qui, se non sei un coglione o un tifoso, e nemmeno un impavido bombarolo, sei solo un disadattato.
E per quanto la probabilità che io sia destinato a intercettare imbecilli per strada si è notevolmente abbassata a causa del distanziamento sociale, per quanto, per decreto, pare siano attualmente sospese le sedute di laurea presso l’università della strada, basta un clic, e ci sono tutti lo stesso. Dietro a qualunque schermo.
E non c’è bisogno neppure di fare i conti col pudore residuo. Ci sentiamo… a casa.
E loro, quelli di prima, sono la visibilità che noi pagheremmo per avere. Perché questo, la nostra clausura forzata, ci ha detto: noi non siamo in grado di tenere a bada la nostra famelico volontà di mostrarci. Non abbiamo bisogno di uscire, ma di comparire. A qualunque costo, in qualsiasi veste: scienziati ed economisti, virologi e politologi, biologi e statisti. Con sfondi di librerie reali quanto il Vesuvio dietro a Felice Caccamo in Mai dire gol.
Pur senza presunzione di verità, e riservandomi di attendere i dati, anche i morti vostri mi paiono sottostimati.