Archivi categoria: Storie inventate realmente accadute

Azikiwe

“Thank you all. Grazie, Mimmo.”
Biascicò poche parole Azikiwe.
Il discorso più breve mai pronunciato alla consegna di un Nobel.
Azikiwe doveva aver scoperto poco tempo prima qualcosa che avesse a che fare con le cellule tumorali. La sua ricerca pare stesse dando frutti così buoni che anche la medicina tradizionale aveva preferito inserirli nella sua dieta.
Azikiwe aveva messo in fila quarantaquattro anni, senza resto, la sua balbuzie aveva imparato l’italiano e poi l’inglese molto tempo prima, ma l’emozione non gli concesse di poter andare oltre quel misero ringraziamento, seppur la faccia scura lo tenesse al riparo da ogni ipotesi manifesta di rossore.
L’avete mai visto, voi, un nero che arrossisce? E un giapponese vecchio? Un giapponese vecchio forse sì, ogni tanto. Ma un nero che arrossisce no, mai. Come se a nessuno importasse se un nero possa o meno essere timido. Io la timidezza mi piace, per esempio. Ci ho scritto una cosa, sulla timidezza, che il titolo era “Apologia della timidezza” ed il testo non c’era. Cioè… geniale, no? L’avete capita? No? Il foglio bianco… La timidezza…
Vabbè; non vinsi nessun premio comunque, con ”Apologia della timidezza”. Ma i posteri… se i posteri sapranno… C’è anche un Nobel per la letteratura, no?!?
A Sully Prudhomme “in riconoscimento della sua composizione poetica, che dà prova di un alto idealismo, perfezione artistica ed una rara combinazione di qualità tra cuore ed intelletto”.
A Giosuè Carducci “non solo in riconoscimento dei suoi profondi insegnamenti e ricerche critiche, ma su tutto un tributo all’energia creativa, alla purezza dello stile ed alla forza lirica che caratterizza il suo capolavoro di poetica”.
A George Bernard Shaw “per il suo lavoro intriso di idealismo ed umanità, la cui satira stimolante è spesso infusa di una poetica di singolare bellezza”.
A Luigi Pirandello “per il suo coraggio e l’ingegnosa ripresentazione dell’arte drammatica e teatrale”.
Ad Hermann Hesse “per la sua forte ispirazione letteraria coraggiosa e penetrante esempio classico di ideali filantropici ed alta qualità di stile”.
Ad Ernest Miller Hemingway “per la sua maestria nell’arte narrativa, recentemente dimostrata con Il vecchio e il mare e per l’influenza che ha esercitato sullo stile contemporaneo”.
A Pablo Neruda “per una poesia che con l’azione di una forza elementare porta vivo il destino ed i sogni del continente”.
A Michele Fiore “perché è timido”.
Azikiwe portò il suo metro e novanta incerto lontano dal Konsethuset di Stoccolma, senza dispensare troppi sorrisi. Evitò con cura i flash e la serata preparata in suo onore per poter rientrare presto a casa. Candele, luci sul mare, un’orchestra pronta a ricamare sulle onde del Baltico, donne vestite della propria grazia, uomini vestiti delle proprie donne.
Clima troppo freddo per un negro, si giustificò.

La sua vita era fatta di giustificazioni: anche quando ebbe il primo dei tre figli dovette presentarsi a casa della compagna, in Salento, a Diso, per provare a manifestare le buone intenzioni alla famiglia di lei, visto che la pelle ebano del primogenito avrebbe reso perlomeno dubbio qualsiasi tentativo di “nonsonostatoio”.
C’è un modo, l’unico, per far capire ad una famiglia del sud che si abbiano delle intenzioni serie, aldilà poi del fatto che il candidato provenga da un sud che è molto più sud, in questa iperbolica sopravvalutazione dei punti cardinali: sedersi a tavola e dimostrare di gradire. Solo che se si gradisce una volta si è impegnati per sempre: non conta nulla che sia la firma di un testimone, o di due, quattro, otto, sedici, al cospetto di un’avventura da commensale al sud. Succede così: si perdono i sensi a tavola, s’abbassa il grado d’intendere, ed è fatta. L’hai voluto tu, senza volere. Tutta quella famiglia sarà la tua famiglia. Tutta. Ma proprio tutta: fino al secondo grado ci dovrai mangiare ogni domenica, fino al terzo grado ad ogni festa comandata, fino al quarto ad ogni compleanno, fino all’ottavo ad ogni matrimonio.
Azikiwe, però, era felice. Dalmar, si chiamò quel bimbo mulatto che gli riempì le braccia e la vita. Gli occhi di profondità troppo azzurre per poterci guardare dentro senza saper nuotare. E poi Gaia e Gioia. Sempre alla stessa tavola. Coperta di sapori di sponde mediterranee diverse. Immersa in colori che sensi d’altre latitudini non avrebbero potuto concedersi.
Solo una cosa Azikiwe non sopportava, di quel suo nuovo sud: la voce del mare.
“Andateci voi. Io ascolto i grilli. E finisco l’anguria.”
Ascoltare i grilli nelle notti d’Estate in Puglia è qualcosa che nessun corso di mindfulness, nessuna campana tibetana e nessuna seduta di training autogeno potrà pareggiare.
Ad Azikiwe piaceva ascoltare.
I grilli, le domande dei figli, le richieste dei pazienti.
I grilli, le domande dei figli, le richieste dei pazienti.
“Perché, papà, non ti piace il mare?”
I grilli, le richieste dei pazienti.
Pochi anni prima di conoscere la madre dei suoi figli, Azikiwe aveva frequentato un’ex compagna di corso poco frequentante con la quale si era unito in matrimonio. O meglio si era semplicemente unito, perché, non sapendo i due a qual credo credere, preferirono godere delle proprie nudità senza formalizzare l’atto.
Rosa era la figlia di un noto pescatore di zona, ribattezzata da quelli del porto “Rosa dei venti” più per una certa predisposizione al sesso di gruppo che per il vecchio sapere del padre, si vociferava.
Le stesse voci di corridoio, che diventarono poderosi sussurri di piazza, dicevano che la procace giovane volesse appurare quanto si diceva sulle generose attitudini sessuali dei figli di mamma Africa, dopo aver, pare, cercato conferma empirica della stessa leggenda metropolitana che De Andre’ cantava che qualcuno narrava dei nani. Lei, sua ascoltatrice devota.
Sta di fatto che, tra loro, amore, musica e parole durarono solo un paio di stagioni sinfoniche: pare che lui trovò la promessa (non necessariamente) sposa a letto con uno di Oslo periferia. Addirittura. Che fanculo a tutte le leggende.
Però, pensavo: ci pensate a quanto siano razzisti i nostri pensieri? Prima che vengano edulcorati per non correre rischi di stigma sociale, perlomeno. C’è, in fondo, un pensiero che non operi dei distinguo su base cromatica? C’è un ambito in cui non ci sia contaminazione?
Per sentirci al riparo, qualche ripetente della Crusca ci ha suggerito l’adozione di consoni artifici linguistici. Più facile a farsi che a dirsi. A volte, perché tutto sia così candidamente politically correct, basta togliere una lettera, persino: Negro. Nero.
Meraviglioso: togli una sola, minuscola, consonate e sei platealmente inattaccabile. Basta togliere la “g”. Che detto tra noi nemmeno mi piace tanto, alla fine: ha la forma flaccida, il suono goffo…
Però, poi, ripensavo: quanto, esattamente, dev’essere nero un nero perché possa parlarsi di extracomunitario? È una questione di contrasto, di saturazione del colore, di post produzione?
Per uscire univocamente dall’impasse, comunque, è considerato risolutivo sostituire all’attributo “nero” l’inciso “di colore”: un negro è di colore. Un bianco no. E un giallo? Un azzurro? I puffi? Occazzo: ho detto negro… scusate!!! Ma io non sono mica razzista: io ascolto jazz e ho tutta la discografia di Miles Davis e John Coltrane! Mi sento assai blues sotto la doccia e quando guido canto Aretha e Otis Redding…
“Sittin’ in the morning sun
I’ll be sittin’ when the evening comes
Watching the ships roll in
Then I watch them roll away again, yeah
I’m sittin’ on the dock of the bay
Watchin’ the tide roll away… “
Ah… ma quindi dici che è perché i neri in America sono un po’ meno neri che i neri in Africa. E che quindi fa veramente curriculum antirazzista ascoltare solo musica afro?!? Beh, io una volta ho ascoltato dei neri, ma proprio molto neri, suonare dei bonghi ad una festa dell’unità. Ma non mi sono piaciuti molto… ok: non lo dico, altrimenti qui è un attimo e si rischia d’esser fraintesi.
“I’m just sittin’ on the dock of the bay
Wastin’ time…”

Azikiwe, ai tempi, era già trai ricercatori più promettenti.
A ventitré anni aveva conseguito la laurea in medicina e chirurgia col massimo dei voti. Il titolo della tesi era così complicato che la commissione era più tesa del laureando. I ringraziamenti erano un lungo foglio bianco il cui silenzio era interrotto solo dal numero progressivo a pie’ di pagina.
Il giorno della discussione si era presentato in giacca e cravatta come etichetta accademica prevede. Il nodo, windsor nelle nobili intenzioni, somigliava più ad un cappio da impiccagione. I pois arrivavano a malapena sotto lo sterno, e comunque molto più in su dell’ombelico. L’abito, scuro e d’un paio di taglie più stretto, glielo aveva prestato Ciro, un collega fuori corso che lavorava come croupier per mantenersi agli studi.
Ciro fu il primo ragazzo che Azikiwe conobbe appena arrivato a Napoli. Che statisticamente mi rendo conto che l’evento non sia così sovrannaturale. Aveva un decennio più di lui e prima di mettersi in regola nei casinò, campava col gioco delle tre carte: due Madonne e San Gennaro. San Gennaro vince, la Madonna perde. Lo faceva anche sostituendo al santino di San Gennaro la figurina di Maradona. Un talento da rimanerci attaccati per ore. Due mani e dieci dita, ma forse molte di più.
Credo che quando una truffa sia fatta con questo talento, fottere diventi un’arte. Insomma: Ciro non era un ladro, era un artista. E molto più trasversale di Robin Hood. Quel bigliettone da 50 era il costo d’ingresso allo spettacolo d’arte varia dentro i vicoli di Secondigliano e San Pietro a Patierno.
In Italia tutto questo non si può fare: la truffa deve rimanere un monopolio di stato. No alle bische clandestine, ma gratta&vinci con papà, mammà e tutta la famiglia!
“Oi’, biondo, reggi un po’”, gli aveva detto una volta porgendogli di nascosto quattro o cinque banconote di quelle ereditate dalla curiosità dei passanti forestieri, “Ti spiego: tu punti dove vedi San Gennar’o Maradona, e vinci. E tutti vedono che vinci. E tutti puntano ché pensano che vincono pure loro. Guaglio’… hai capit’?”.
Azikiwe aveva capito. Azikiwe studiava e reggeva il gioco a Ciro. Ciro giocava e reggeva i libri ad Azikiwe.
Napoli era l’ultimo sud. Quello che mancava ancora, alla storia di Azikiwe.
Ogni mattina, nelle pause tra un atlante medico e gli appunti di fisiologia, girava le viuzze della città vecchia, che tutta pareva città vecchia; solo qualche pezzo ancora di più. E gli piaceva fermarsi lì, guardare i panni stesi vestirsi di vento, carezzare trasparenze in controluce, rubare scollature distratte, immaginare di farci l’amore.
Napoli somigliava al continente nero. Gli somigliava per la povertà e per la fantasia. E perché tutti sapevano cantare. Solo che le Gazzelle, quando si svegliavano, inseguivano, invece di scappare.
Dalla finestra della piccola camera sgarrupata che aveva preso in affitto insieme a Ciro si vedeva il Vesuvio.
“Guarda il Vesuvio, Azi’… Guardalo quant’è bello quando si tuffa nel mare!”
E Azikiwe rimaneva in silenzio, a fissare invece pezzi d’intonaco agganciati come trapezisti ai fili scoperti del vecchio impianto, appesi come naufraghi all’ultima scialuppa.

Azikiwe era andato via di casa senza sapere quale fosse casa a diciotto anni. Obliterando per la tratta Lecce-Napoli, solo andata. Una valigia verde, ché a chiamarla trolley si fa più fatica che a spostarla, che mamma e papà avevano riempito come si conviene ad ogni flusso migratorio di cartone. Papà era l’uomo a cui Azikiwe era stato affidato: un omino canuto e asciugato dagli anni che lavorava ogni giorno, dall’inizio dei suoi, nel suo piccolo suprmrcato, ché le “e” erano tutte fulminate. Mamma la compagna di vita degli ultimi undici anni. Si erano conosciuti ad un seggio elettorale. Lei uscì dalla cabina che quasi le stava aderente e lui le guardò ingordo tutta quella carne. Il voto fu l’ultima cosa a rimanere segreta trai due, e lei smise quello di castità che aveva promesso all’ex marito sul letto di morte.
Azikiwe aveva vissuto la sua fanciullezza impilando cartoni sopra i bancali per una pipa gelato al giorno, gialla o rossa, e la sua adolescenza leggendo libri di medicina di nascosto dai coetanei e portando a spasso un meticcio di taglia media che ad ogni sorgere del sole gli leccava la sua riconoscenza quadrupede. Gli piaceva il profumo della terra, camminare i sentieri che i suoi passi scalzi non si stancavano di ripetere. Gli piaceva l’ombra degli alberi e l’odore delle viti. Gli piaceva succhiare l’erba e sfiorare le spighe. Gli piacevano i fiori quando non venivano colti. Gli piaceva dove non c’era troppo rumore d’uomo. E il rumore d’uomo, in quel paese di mare, c’era solo per due mesi l’anno, salvo i colpi di tosse con cui gli otto vecchi del circolo combattenti spostavano via la morte di qualche giorno ancora e le grida destagionalizzate di noi adolescenti che inseguivamo l’unico pallone prima che s’incastrasse sotto i paraurti delle 500. Azikiwe era troppo lungo per giocare a calcio e quando, ogni tanto, la sua timidezza s’avvicinava, noialtri lo si metteva sempre in porta: “Prendilo, Azikiwe! Prendilo!”.
E lui restava lì, trai due pali improvvisati. E molto più alto di quei legni. La regola era che il pallone era considerato alto solo se superava il braccio potenzialmente proteso di chi era in porta. Tutto il resto al di qua del perimetro immaginario era gol. Tutto il resto erano urla di gioia e pugni sotto lo stesso cielo, quando parava Azikiwe.
Si giocava fino a tardi, e quando scendeva la sera Azikiwe compariva solo quando sorrideva. Non molte volte, in verità. Forse sarebbe stato un buon giocatore di basket, chissà… ma non c’erano canestri nel suo paesino in riva a quel mare che mai si fermava a guardare. Per non sentire ogni onda frangersi come sulle sue stesse membra.
Azikiwe aveva cinque anni quando fu affidato alla sponda al di qua del mare.
Sottratto da una mano d’uomo al destino monco delle proprie terre.
Ogni bambino che muore è un fiore che non sboccerà.
Penso che ancora a più della metà dei nati non sia riservata la possibilità di esistere.
Penso alla beffa di un genio che mai nessuno saprà.
Penso al quieto riparo della nostra responsabilità.
Penso alla tempestosa via di fuga, tra le braccia provate di una madre.
Fuggire.
Da ciò che non hai, da ciò che non sarai.
Fuggivano senza sapere quegl’occhi di bambino, tra altri cento occhi di bambino.
Nell’iride ultima istantanea impressa, brandelli rubati da un’onda funerea.

“Tieniti stretto a me! Come ti chiami?”
“Azikiwe”
“Io mi chiamo Mimmo. Tieniti stretto a me, Azikiwe, ché ti porto via da qui.”

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La dura vita degli scrittori normali (racconto breve)

-Ma chi è quel tipo strano con quella corona d’alloro in testa? Si è laureato un bel po’ fuori corso…-

Al Caffè Letterario io ero solito prendere il mio caffè corretto con grappa barricata ed una punta di zucchero di canna, ogni giorno all’ora del tè.
Il mio bioritmo era ubriaco dai tempi dell’università, e quel posto era l’unica cosa che trovavo aperta ogni volta che le mie terga avevano bisogno d’uno sgabello e la mia gola di qualcosa di caldo.
Il Caffè Letterario era gestito da Mario, un ex scaricatore di porto che aveva preso la terza media alle scuole serali a cui il padre, Giuseppe Letterario, aveva lasciato in eredità quel bancone, tre macchinette videopoker e la manciata di clienti affezionatissimi abbandonati su quel lastrico opaco da mogli e datori di lavoro.

Quel giorno però lo strano signore d’alloro crinito era appena sceso da un taxi giallo fiammante porgendo al conducente, barba lunga, aspetto demoniaco ed occhi di bragia, quanto richiesto dal tassametro in monete da due euro.
-Ciao Caro’, ti squillo tra un po’. Dio t’assita!- disse con un’invocazione non troppo dissimile, nei toni, a una bestemmia, brandendo uno smartphone di ultima generazione.
E mentre il losco figuro lasciava buona parte del retrotreno sull’asfalto di via della Speranza, il singolare passeggero entrò senza salutare, ordinò due negroni e scartò un pacco di toscani appena sotto il cartello “no smoking”.
-Pago io, Virgi’, non fare troppe commedie- fece fermando con un cenno l’uomo che lo aspettava al tavolo appena questi accennò ad alzarsi.
-Quello delle commedie qui sei tu…- rispose l’uomo riguadagnando cauto la seduta mentre si accompagnava un rene -per quanto divine, intendiamoci!-
Non potevo crederci: era lui.
Seduto in quel bar del centro con poca luce, il poeta più luminoso che la letteratura d’ogni tempo avesse conosciuto, il geniale esecutore dei canti più straordinari mai letti, il padre del meraviglioso idioma che volgare modernità minaccia.
Ed io seduto lì, con una tazzina ed un taccuino vuoti a implorare ispirazione. Ad un palmo dal suo naso. Metaforicamente. Che dato la prominenza del suo setto non è che avrebbe significato tutta ‘sta vicinanza.
Ne avevo appena compiuti trentatré, e non parlo di canti.
E non pensavo nemmeno che, nei due anni che mancavano al mezzo del cammin, potessi inventarmi chissà cosa.
Io ero uno scrittorino in attesa dell’editore che ricercasse il talento che sapevo di non avere, ma che magari fosse vittima d’una fortunata svista. Da una vita inseguendo il romanzo perfetto, tutti i giorni a rincorrerlo nelle stesse vie, sulle stesse spiagge, negli stessi ricordi, sullo stesso tavolino, dentro lo stesso caffè corretto.
Senza mai trovare altro che bozze balbuzienti, bic mordicchiate e pagine accartocciate vicino alle mie gazzelle grigie, che non correvano più.
M’alzai. Di scatto. Iracondo pronto ad offrire candidatura al quinto cerchio. I resti della mia penna stretti nella mano che delle due non colpì con furia il tavolino. Il frangersi della tazzina non fece in tempo a far rumore…
-E ora dimmelo, ti prego: come hai fatto tu, Alighieri, a fare quella cosa che hai fatto?!?-
-Ma smettila…- disse lui sufficiente mentre schiacciava pulsanti a caso al videopoker.
-Cioè ma… ti rendi conto di quanto è difficile scrivere cose che sembrino geniali, o anche soltanto belle, dopo quella cosa che ti sei inventata tu? No ma, dico, lo sai che casino hai fatto tra tutti noialtri che si scrive, tra tutti i poeti dopo di te Poeta? Non ti viene vertigine a star così in alto?
Non ti girava la testa a girare gironi?-
– Ma fammi il piacere… gli unici gironi che mi interessano sono quelli di europa league, ché quest’anno la viola vince!-
-E Beatrice che dice?- incalzai- Hai idea che invidia le altre? Non potevi scrivere cose così, come tutti… Io impazzisco se so come hai messo in riga i numeri a forma di parole. Se so come hai parlato tu della morte. E tu dell’amore.-
Lo schermo infilò quattro donne ed un nugolo di monete tintinnò fuori dal videopoker.
– Quattro donne… altro che Beatrice, ragazzo: si deve andare sulla quantità!-
– Va’ all’inferno!- sbottai facendo attenzione a mettere al posto giusto l’apostrofo.
– Ma che tu dici, bischero? L’inferno non esiste…-
– Come non esiste? Se lo hai inventato tu! E non fare il modesto, ché sarebbe di pessimo gusto!-
Lui s’alzo, cambiò le monetine, pagò il mio caffè corretto, prese due gratta e vinci.
-Ed ora dimmi- provai ancora io per rallentare il commiato – per tutto ciò che hai fatto a noi scrittori normali, quale sarebbe il contrappasso che tu meriti?-
Mi strappò dalle mani il taccuino in cui si inseguivano i miei pochi appunti potabili e i miei innumerevoli dubbi…
-Leggerti- sentenziò guadagnando l’uscita col compagno di bevute.
Il tassista appena allertato passò alitando imprecazioni e cognac, e qualche sportello sbatté poco prima che il traffico lento dell’ora di punta inghiottisse i tre.


L’omino con l’abaco

‘Sta cazzo d’insonnia…
Cosa non provai a fare per scacciarla, ferirla, insinuarle un dubbio, almeno…
Provai a convincerla di farsi da parte con fare assertivo, poi la minacciai con lame di cicuta e valeriana…
Mi faceva caldo contare le pecore… sarà che ho un debole per quelle in cashmere, sicché mi misi a contare identità.
Iniziai che avevo vent’anni anni, mi sa.
Mamma, papà, fratello… 1, 2, 3 zii, cugini… 4, 5, 7, 11…
La mia era una famiglia numerosa, ché ci misi le prime due notti per scorrerla tutta.
Gli amici, pochi in verità, e le storie d’amore… 45, 46, 49, 58… macché, state serene: molte meno… i miei compagni di classe, di scuola, di giochi… e continuai con persone nuove, investigate nelle profondità o solo sfiorate in superficie… 221, 222…
Mi ritrovai sui mille che ancora contavo gente del mio paese, Onarevel, e poi finii, finì che più non ne trovavo: 14.267.
E continuai per la provincia, d’oltre 100 paesi, e segnavo: Roccu, ‘Nzinu, Ucciu, vecchi dai nomi radicali, finiti, immediati, adulti, bambini dai nomi esterofili, Christian, con l’acca, Alex, con la ics, Kevin, con la cappa. Che diventavano sovente nelle bocche eleganti di genitori, parenti ed affini Christia e Kevi, tronco, oppure Christianna e Kevinni; il richiamo vocale è sempre troppo forte, ggiùalsuddu: abbiamo talmente tante cose in sospeso che non sopporteremmo un consonante lasciata lì, al vento, al limite di qualcuno.
E continuò, il mio censimento onirico, tra donne e uomini, mescolati nelle piazze meridionali, tra nomi e cognomi, segni d’inchiostro dimenticati dentro fogli di fatiscenti uffici anagrafe.
E proseguì, la faticosa conta, nei campetti di periferia e nei grandi stadi… Giulio, Andrea, Antonio, Diego, Armando… nei teatri e dietro le quinte, al di qua, tra le maschere, e fin dietro i sipari… 203381, 203382… di città in città: prendevo treni ed aerei velocissimi (perché non c’erano, nei sogni, le Ferrovie dello Stato né l’Alitalia), e sognavo e segnavo… e a Roma contai due grandi camere piene di gente che mangiava e dormiva, e mangiavano e dormivano i loro amici, e mangiavano e dormivano gli amici dei loro amici… e a Milano tutta la gente a spasso d’uomo… e a Bologna i musicanti in piazza Maggiore… e chi c’era nelle piccole province, nei piccoli paesi, nei rioni e sotto i ponti… e trascrissi, trascrissi tutte le identità d’Italia…
E poi svelto passai a tutte le identità d’Europa, dall’est povero all’ovest che si credeva ricco… 730.999.999, 731.000.000, 731.000.001…
E scorrevano le notti, e traversai gli oceani, e giunsi fino alle Americhe, in navestop sulle caravelle del Vespucci, che ancora castimava le fortune storiche di Colombo che, ma Indie di cosa, Cristo’?!? e contai il suo equipaggio…
E tornai, sulle righe del Milione, verso le terre dell’est… e scrivevo, scrivevo milioni di identità diverse, dagli occhi sempre più stretti, fino al punto più alto, nel Tibet… e poi nel medio Oriente tra le guerre di religione e di altre cose scure in barile… e poi giù, in groppa ad un antilope velocissimo, nella più nera delle Afriche, dove c’erano guerre meno interessanti, e gente talmente scura che compariva solo quando sorrideva…
Altre manciate di nomi le trovai negli igloo, che sarebbero dei trulli più freddi, unico riparo dai soffi del polo, dove fui trascinato in volo dalle renne di Santa Claus, quando lui fece fortuna in occidente e poté permettersi una motoslitta.
Tanti tratti e incroci di razze, che in tante notti fermai. 7.033.348.798. Li avevo contati tutti.
E m’addormii.

Fu strano, ma presto mi svegliai, perché mi comparse un faccione dentro un casco gigante che si chiamava Gagarin Jurij, e che non avevo ancora, in verità, catalogato.
M’invitò, ridendo di una risata cosmica: “Monta su, genio… ché non siamo a nulla! Davvero pensi d’aver ultimato l’album? E chi siamo noi umani, i soli abitanti di questo universo? Siamo solo i più presuntuosi…”
E mi portò in alto, a bordo del suo iperultrasonico Vostok1, lì da dove la terra era più bella, senza frontiere né confini, trai satelliti e sugli altri sette pianeti del sistema solare (Plutone è stato catalogato come pianeta nano, per chi storce il naso di saccenza pure di fronte ai sogni!), e poi più lontano, nelle orbite galattiche, tra nane rosse e giganti bianche, e dentro mille universi e verso miliardi di stelle per ogni universo, e biliardi di persone per ogni stella…. e ne scrissi i nomi, e ne segnai le identità.
Esausto m’abbandonai, perché tutto lo spazio siderale avevo contato, perché tutti erano sul mio enorme taccuino. 34.536.858.574.524.735.787.983.238.576.498.989.899 (trentaquattromila miliardi di biliardi di triliardi… sussidio alla lettura).
E m’addormii.

Mi svegliò il fragore di una risata baffuta.
– Piacere, Albert…-  mi disse un uomo -Io scrissi d’una teoria che se hai bisogno di fartela spiegare allora non la puoi capire…-
E rise, rise ancora di una risata relativa. Solo mi disse che non potevo pensar di un’opera finita spostandomi solo in questo spazio siderale. E mi condusse a bordo della sua “Bianchina del Tempo” in altre cose che chiamerò posti. Ed in effetti era pur vero: non certo bastano le identità contate se sono solo quelle di questo rintocco.
E m’arrampicai allora alle radici dei miei ulivi, di querce e sequoie genealogiche vedendo nonno, nonna, le gesta dei miei avi… e al mio catalogo aggiunsi un signore fiorentino col naso aquilino e tutta la gente dei suoi gironi, due ometti goffi coi baffetti, Charlie ed Adolf, aggiunsi Miles e John, due che suonavano la tromba, Mozart Wolfgang Amadeus, Chopin, Schopenhauer, Friedrich Wilhelm, un altro filosofo tedesco col cognome a forma di codice fiscale, un pittore che chiamavano Pablo, fissato coi cubi, Cleopatra, George Washington, William Shakespeare, e Sigmund, uno maniaco dei sogni che voleva uccidere Marzullo, e tale Martin Luther che continuava a strillare “I have a dream” (e subito di nuovo ‘sto Sigmund a rompere i coglioni) e Federico Fellini, James Dean, Audrey, che m’offrì la colazione, tre di Manchester con delle chitarre, i mille di Garibaldi, che raccontavano barzellette su Renzo Bossi, Napoleone, che mi chiese “Ma ‘sti posteri, poi, che hanno sentenziato?”, il sosia di Osama Bin Laden, che non mi ricordo come si chiama, gli eserciti dei Romani, Attila, i popoli Greci, Socrate e i presocratici, che mal sopportavano questa dipendenza e vollero scritti i loro nomi per esteso, Assiri, Babilonesi, e Bereghesi, Banatù, Munclassen, Xananà, Tinnini ed Antienterprise, altri popoli dell’intespazio avantiCristo (A proposito: lui non si fece trovare manco ‘sta volta!), il sig.Rossi, Rossana Alberti, Jacques Bordeaux, Elmut Lang, Ivan Petrov, Yoseph Ismael, Abdul Assan, Kim jun-wo, Evaristo de las Casas.
135.998.785.983.429.598.698.269.862.983.897.678.648.699.768.975.489.768.976.894.509.896. 897.328.934.686.874.386.778.689.743.986.026.034.949.986.897.687.498.896.769.440.405.096
(centotrentacinquemila miliardi di biliardi di triliardi di quadriliardi di quadriliardi…)
Avevo contato tutte le identità di tutti i luoghi e di tutti i tempi.
E m’addormii.
Avevo finito…
credevo…

-Salve, son Luigi-
Mi svegliai ancora, riconoscendo un uomo già registrato in sulla metà.
Continuò: -Io son padre di questo teatro, pensi al disegno com’ultimato? Folle tu sei, ma limitato-
Risposi: -Perdonerà il mio estro maldestro: lei mi conduca, caro maestro-
E per vero così fu al che, arricciando un sorriso, questo mi disse, qui per inciso:
-Davvero no, non si può credere che per ogni esistito ci sia un’identità sola: siam uno, nessuno e centomila. E per ogni identità d’ogni spazio ed ogni tempo ve n’è una per ogni istante vissuto, una per ogni persona incontrata.
Siamo moltitudini.
Infiniti punti d’infinito spazio d’infinito tempo, che si fondono in ognuno. Perfetta armonia di imperfezioni senza numero.
Dormi, dormi… e non metterti a contare, ché ognuno già conta, se ogni parte di sé impara ad amare-


Racconto di fantasia

C’era una volta…
-Un re!- anticiperanno i lettori dalla curiosità più affamata.
Un re? Ma voi siete pazzi! Parlare di monarchia, di totalitarismo… voi siete pazzi, ad esprimere questi concetti così prossimi all’apologia della tirannide! Qui siamo in democrazia: il punto di massimo splendore politico-ideologico che il globo terracqueo abbia mai conosciuto. Democrazia. demos: popolo… crazìa: governo… governo del popolo!
Po-po-lo… certo, un po’ cacofonico.
Po-po-lo… sembra che tu abbia ingerito cinque plumcake allo yogurt del Mulino Bianco e non riesca a deglutire.
Ed effettivamente certe cose sono difficili da ingoiare…
D’accordo, la smetto… questo non deve avere certo i contorni di un’invettiva, d’un J’accuse alla Zola, scrittore francese e poi grande trequartista del Napoli.
Questo è un racconto, maledetti saggi!
Solo un racconto! (Po-po-lo… mha!?!)
C’era una volta, dicevo, due fratelli…
-Ma se i fratelli erano due bisogna dire “c’erano”, “c’erano una volta”- sottolineerà il lettore attento.
Sì, d’accordo, ma questa è una licenza poetica.
E comunque non voglio essere più interrotto, fatemi il piacere.
C’era una volta due fratelli, di nome Nello e Tonino…
-Ma come fanno due fratelli ad aver lo stesso nome?- interromperà aggrottando il sopracciglio in favor di luce il lettore affianco a quello attento, anch’esso attento per osmosi d’attenzione.
Questo è un racconto di fantasia, cazzo! Un racconto di fantasia! Capito? Di fantasia.
E nella fantasia succede di tutto. Succede che Marco, per esempio, Carta vince Sanremo, che Renzo, per esempio, Bossi diventa consigliere regionale, che Simone, per esempio, Barone vince i mondiali di calcio, che uno, per esempio, con 4 televisioni diventa primo ministro, che il presidente, per esempio, degli Stati Uniti prende il Nobel per la pace.
Simone Barone è quello a cui, dopo 50 metri di corsa, Filippo Inzaghi non passò la palla quando segnò il 2-0 contro la Repubblica Ceca il 23 giugno 2006.
Un racconto di fantasia, ecco.
Allora: c’era una volta due fratelli, di nome Nello e Tonino, nati in un piccolo paese rispondente al nome di Onarevel, ridente cittadina agricola dalla terra brulla ed arsa dal sole della Norvegia equatoriale.
L’uno, Nello, era di un’ignoranza catodica.
Non aveva mai letto un libro: pensava che “Io lessi” fosse l’autobiografia del noto quadrupede del piccolo schermo,che cappuccetto rosso fosse un preservativo alla fragola, e che la rosa dei venti fosse una ragazza dedita alle gang bang.
Un’ignoranza con la “I” maiuscola, ed anche con un’altra, minuscola, tra la “gn” e la “o”.
L’altro, Tonino, era di una cultura pragmatica.
Credeva che essere “colto sul fatto” volesse dire conoscere vitamort’emmiracoli circa il tossicomane del paese.
Nello proveniva dalla classica famiglia del Mulino Bianco, che non faceva che tirare acqua al proprio.
Era un giuovine rampollo di belle speranze, sorriso sbottonato e Lacoste aperta. Bianchi.
Onarevel, pur non affacciandosi sul mare, viveva di reti, fittissime, da non far passare neppure il più piccolo pesce senza intervenire sul suo corso.
Che se Steve Jobs fosse nato a Onarevel, avrebbe fatto domanda di trasferimento-residenza a Napoli… ma questa è stata già scritta, più o meno.
Di certo non sarebbe stato questo il Tempio delle Mele.
Sta di fatto che Steve Jobs non vi nacque, ad Onarevel. Ma vi nacque Nello.
E non si trovò poi così male, anzi: mele o non mele, il primogenito dal nome rotondo raccolse presto i frutti di oculata semina. Si trovò a frequentare la Onarevel-bene, i suoi circoli culturali, i personaggi di rango. Fino a diventare presto il punto di riferimento nel partito dei Conservattori.
Tonino, detto così anche perché faticava a darsi un tono, proveniva dalla stessa famiglia, ma si era sempre vantato di lottarci, contro i mulini a vento.
Anche a 40 anni con la maglietta di Ernesto Guevara de la Serna. Che, troppo facile comandante, se René Lacoste fosse stato così fotogenico di certo non si sarebbe preferito un coccodrillo, tra le lacrime.
Tonino aveva la faccia svampita e buona. Gli occhi scavati e buoni. Tonino era buono.
Ed è incredibile come i buoni si trovino a gestirsi i cazzi propri con irreprensibile puntualità. Casualmente nel posto giusto. Casualmente al momento giusto.
I buoni non sanno “come”, sanno solo “Chi”.
E ad Onarevel i “Chi” erano pochi e sempre gli stessi, a loro volta buoni, credo.
Tonino si ritrovò così a rivestire importanti ruoli nel partito dei Riinvoluzionari.
La campagna elettorale di quell’anno fu un caso unico nelle democrazie moderne: Nello e Tonino, novelli Romolo e Remo, si trovarono ad affrontarsi per l’ambita poltrona di primo cittadino di Onarevel. L’un contro l’altro armato, del solo saper politico.
Si ricordano momenti di frizione dialogica di straordinaria intensità. Battiti da più dibattiti, palpiti da più pulpiti. Tribune politiche sotto il campanile del paese in cui l’eloquio dell’uno ed il sapere dell’altro si confondevano tra folle di fauci spalancate d’ammirazione.
Pare che Nello esordì con -Non ci sono più le mezze stagioni-, e Tonino prontamente ribattè con un sonante -La gatta frettolosa fa i figli ciechi-.
Nello incalzò arguto -Tira più un pelo di fica che un carro di buoi-.
-Sì ma, mogli e buoi dei paesi tuoi- rispose sciovinista Tonino.
Generalmente, cari lettori, sono assai fantasioso anche nella chiusa finale, nell’epilogo sorprendente.
Ma ‘sta volta no: è scialbo, vecchio, ritrito. Ve lo lascio, anzi. Ché tanto, vinca l’altro o l’uno, poco cambia. Decidetelo voi in che modo non si debba cambiare, come si fa ogni maggio/giugno, in ogni Onarevel limitrofo.
Oddio… in realtà un terzo personaggio ci sarebbe ancora: tale signora Bianca, di cui ben non ricordo il cognome. Una tipa piuttosto taciturna che partecipa ad ogni tornata elettorale senza aver la platea dei comizi.
Non tira acqua al proprio mulino.
E più che contro i mulini a vento lotta contro l’avvento dei muli.
Ma non supera mai il 3% e riceve scarsa considerazione presso l’elettorato attivo e presso le parole di menestrelli di questa o quella corte e le penne di piccoli autori che rincorrono finali plausibili.


Amici miei

– Ciao Superman…
– Uei Fio’ !
– Sarà una vita che non ci si vede… che fai di bello? di cosa t’occupi?
– Ma… niente… lotto e sconfiggo la criminalità, risolvo casi, provvedo a cose, salvo gente… mi sono pure sposato: con Lois Lane, quella del 3° E, te la ricordi?
– Noooo… ti sei sposato! Addirittura! Tu sì che sei un supereroe, amico mio!
– E tu, Fio’, tu che fai?
– Navigo, su feisbuc.
– Mado’, che piacere m’ha fatto rivederti, Fio’! Ora vado, ché devo fare l’aerosol per l’allergia alla kryptonite; e poi mi tocca a Smallville ché c’è riunione di condominio al 22° piano e c’hanno l’ascensore rotto. Volo Fio’, ci si vede!
– E carne, Superman, sai che sforzo: tu c’hai i raggi X!
Eravamo i rappresentanti del 3°A, io e Superman. I primi della classe nelle materie umanistiche. Lui infatti si mise a studiare Scienze della Comunicazione perché voleva fare il giornalista.
Certo, un po’ leccaculi lo era: un giorno l’insegnate d’Italiano chiese ai banchi di studenti se ci fossero volontari, e lui alzò la mano d’avanti alla classe sgomenta –Io, pr’essore’!-
– A te, Superman!- rispose la scolaresca in coro. E d’allora se ne uscì così.
L’anno prima, sempre verso piazza Sant’Oronzo, mi ricordo, avevo rivisto Flash. Ma n’attimo, proprio.
– Ciao Flash…
– E Fio’ – mi disse.
Poi aggiunse duettré cose che provai ad ascoltare ma nemmeno sentii perché in un battito di ciglia era già arrivato an curci’a Manduria (che nel gergo dei supereroi vuol dire “posto molto distante”).
Flash era un tipo ansiogeno, faceva tutto di corsa: suonava la campanella della seconda ora e lui già faceva intervallo.
Stava un po’ sulle palle a tutti perché da quando iniziò a frequentare la nostra classe vinse tutti gli anni la corsa campestre ai Giochi della Gioventù. Solo che partecipò dal ‘93 al ‘98 e vinse anche nel ‘91 e ‘92. Che un po’ ci sembrava strano. Ma uno dell’altra classe, uno pluribocciato con i capelli arruffati grigi ed i baffi pensosi grigi che chiamavano Albert ci disse che sì, si può. Mi ricordo che poi ci fu un casino con i neutrini, i tunnel, il ministero dell’Istruzione, una bidella che si chiamava Maria Stella…
Mi ricordo anche che gli venne la mania della fotografia, a Flash, tanto che gli regalammo una Laica a costo di mandare su tutte le furie il professore di Religione. Non imparò mai ad usarla perché non capiva come potesse farsi un’istantanea col flash (se non avete studiato Heisenberg è un problema capirla, ma mica bisogna essere dei supereroi!).
No, proprio non era una cima, Flash.
Anche se il più ciuco della classe era senza dubbio Hulk. L’omone verde. Ma era senza speranza. Anche gli incontri con lui erano diventati negli anni sempre più saltuari.
– Ciao Hulk…
– Ou Fio’!
– Come stai? Come te la passi?
– Fio’, che dirti… tutto normale. So’ stato mò mò a Montecitorio a menare 630 idioti che secondo me ci stanno a prendere per culo. Sai come sono no!?! Sono diventato verde e… che te lo dico a fare Fio’! E tu?
–  Verde, anch’io. Al tavolo. Gioco a poker live, a texas on line, passo alla snai…
Hulk ce lo si portava sempre dietro, quando si usciva “alla Villa” o “al Ggarden”. Non si sapeva mai, specie “fuoripaese”: bastava un fischio e risolveva problemi.
Certo a scuola si cercava d’aiutarlo, perché nonostante fosse schizofrenico non aveva l’insegnante di sostegno.
Per un bel pezzo si era convinto di voler fare il giardiniere; ci aveva scartavetrato la prostata co’ ‘sto pollice verde!
– Salutami gli altri, Hulk!
– Sarà fatto Fio’, tvb.
Che alla fine era un bonaccione.
Hulk era molto amico dei Fantastici 4. E non era così difficile capirne il perché: I Fantastici 4 li ribattezzammo così perché per interi semestri il 4 risultava cifra periodica su ogni registro che riguardasse il loro rendimento scolastico.
Erano poco integrati e facevano gruppo a sé. Il loro leader era Mr Fantastic, un giovanotto smilzo che aveva il potere di allungare a suo piacimento proprio il corpo e qualunque parte di esso. Qualunque. Infatti era molto quotato tra le ragazze del liceo. Fu per lui, pare, che si dovette istituire il tempo prolungato.
Seppi che sposò la Donna Invisibile, che era una di quelle che si invitava sempre alle feste serali dopo il catechismo ma non c’era mai.
Gli altri due erano l’Uomo Torcia, che veniva sistematicamente bruciato in Chimica e Biologia da una professoressa metà donna metà Carla Conversano (anche qui chi non ha studiato Heisemberg avrà problemi), e La Cosa, che la professoressa di Latino chiamava Res/rei per darsi un tono.
Un po’ meno graditi erano gli incontri col mio compagno di banco dell’epoca: uno che non era mai stato così volenteroso, ma che si salvava sempre perché riusciva ad arrampicarsi sugli specchi.
– Ciao Spiderman
– Ue Fiò… tutt’apposhtu?!?
– Ne è passato di tempo… ma cosa fai, di cosa ti occupi?
– Solita vità, Fio’: salvo l’umanità dal male, tu?
– No no… io… io gioco a calcetto. Pensa che faccio anche il Mister. Esordienti e Giovanissimi.
Di solito non avevamo molto altro da dirci: non c’era mai stato troppo feeling perché quando si giocava a calcio, lui faceva il portiere, gli toglievo sempre la ragnatela dall’incrocio dei pali. Ci metteva ore a rifarla (era agli inizi), ed io gli gridavo – Para, aracnide di merda!-, e prontamente la ritoglievo.
Ricordo ancora quanto lo si prendeva per culo con la canzone degli 883: se ne andava di testa… infatti credo che uccise Mauro Repetto, un giorno. Che non si seppe mai, talmente era inutile.
– Vado Fio’, ché c’ho lezione di free climbing
– E grazie al cazzo, Spiderman!
Era sempre seduto dietro a Capitan America, che non sento praticamente d’allora perché le chiamate intercontinentali costano. Che poi lui, a parlarci chiaro, era nato a Carmiano periferia, e ascoltava Toto Cutugno: “e se vai a cercar fortuna in america, t’accorgi che l’america, staqqua… paaaarappàppàpapà…“. Solo che lo prese ‘sta mania degli Usa, ‘sto filoamericanismo spinto… “tu abballe o rocc rol,  tu giochi al bes bol…”.
Pare che poi sia diventato famoso per il suo scudo fiscale. Una cosa assurda che poi venne proposta pure in Italia per il recupero crediti.
Una che per un certo periodo ho continuato a vedere spesso invece è Wonder Women, una ex fiamma che mi contendevano Thor, un ripetente della sezione B, e Daredavil, uno che non smetteva mai di pensarla; non a caso, poi, è diventato cieco… anche avvocato… quindi non si è mai saputo se la cecità fosse reale o burocraticamente indotta a scopi pensionistici. Un supereroe falso invalido, come ce ne sono tanti.
– Ciao, Wonder Woman
– Michele Fiore… ma tu guarda… speravo mi chiamassi, e invece… non sei cambiato per nulla, proprio come al liceo: bello e impossibile.
– Macché Wonderbra (la chiamavo così perché aveva due tette di marmo), ero solo timido.
Lei, mi ricordo, guariva dalle ferite molto più velocemente di noialtri. Che pensavo che questa fosse la sua peculiarità di supereroe, come narrano i suoi vignettisti, ma era solo comune caratteristica di donna.
Una volta, mentre ero con lei, incrociai uno di cui avevo smarrito anche il ricordo. E penso che la sorpresa fosse reciproca se disse – Per il potere di Greyskull, lu Fiore!-
– Pillamatonna, He-man.… che fai?
– Ma, nulla… ieri ho liberato l’Universo. Tu?
– Associazionismo e volontariato.
Che personaggio He-man… sfondato di soldi, finì col fare il finto punkabbestia in quel di Bologna. Con un cane che si chiamava Buttle-cat, che lui dice fosse una tigre domestica, ma era troppo megalomane per potergli credere.
– Ci vediamo Fio’, fatti vivo!
– A te, Highlander!
– Non confondere la merda con la cioccolata!
Che personaggio, He-man.
E non sai chi ti vedo una sera, st’Estate!
– Ehy- mi sento
– Ciao Batman… maledetto!
– Grande Fio’!
Io e Batman ci punzecchiavamo perché eravamo considerati i più belli del liceo, e ‘sta cosa un po’ mi dava i nervi. Ed anche a lui. Però ci si stimava.
Lui era un tipo strano, taciturno. Ci si vedeva poco, che co’ ‘sta cosa che non poteva stare alla luce frequentava le scuole serali.
– Rilassati, Batman, bbascia li ali. Stai sereno…
– Figurati Fio’, tutto tranquillo
– E quello che aveva fatto la primina, Robin? Che poi far fare la primina è di una presunzione genitoriale aprioristica insopportabile…
– Nella Bat caverna… frate mia… non si muove… sai, st’impiegati statali, quando s’attaccano alla poltrona! Adesso poi, che BAT fa provincia… non ti dico! La stasi del garantismo!
– E quell’altro, come si chiama?!? Quello strano, con la paresi facciale…
– Ah… Joker… sìsì, sta bene, un po’ esaurito… si è dato al cinema: ha fatto “Shining”, “Qualcosa è cambiato”…
– Quindi vivi ancora lì?
– Sì, ma faccio settimana corta, ché Gotham City è diventata una palla… sempre la stessa gente. Ci torno solo perché ho un contratto a tempo determinato co.co.co. per sconfiggere il male: ho dovuto fare l’impianto a metano alla Bat mobile. Insomma… solita routine… e tu Fio’? Tu? Che fai? Dimmi di te…
– Scrivo storielle.

Tra tutti i Supereroi sono quello che meno ha confermato le attese.