Archivi categoria: Il Diario (avventure mirabolanti ma non troppo)

Ho visto Maradona

Perché, scusa, anche tu puoi morire?

Lo ha fatto nel giorno in cui se ne vanno i ribelli.
Non contano più le parole biascicate da quel volto tumefatto dai suoi demoni.
Perché avete ragione voi benpensanti: Maradona non è un eroe, non è un esempio, non è un modello di studio interessato all’assoluzione di questa o quella corte morale.  
Maradona è simbolo, proiezione di quanto un miliardo di noi ha stupidamente immaginato di ripetere. Anche solo una volta. A ridosso dell’area di rigore o più vicini al cerchio del centrocampo, sulle note di una canzone che conosciamo apposta o negli intervalli tra macchine e marciapiedi.  
Maradona è iconografia, effige trascendente la sua stessa umanità indisponibile ai più, oltre la sua inconsapevole essenza, oltre la sua carne di fibre divine, capace di volteggiare, tra stinchi e pedate, per la sua voglia bambina di restare in piedi.
Elasticità che non si piega, genialità che non si spiega.
Estro senza accademia, che in un lampo trasforma il più bizzarro dei suoi ghirigori nel gesto utile al trionfo di un popolo.
Maradona è l’idolo di spalti rigurgitanti che torna con le scarpe slacciate a mescolarsi al fango delle periferie. A godere di un altro gol quando si spengono le luci.
Maradona è il ragazzino che vuole diventare il più grande. 
Maradona è il più grande che non esita a tornare ragazzino.
Maradona è rivalsa, per tutto ciò che sarebbe potuto essere e non è stato.
È l’altare improvvisato dei traditi da Dio.
Maradona è la metafora perfetta del sud del mondo, nei suoi splendori, nelle sue miserie, nelle sue contraddizioni. Quel sud che c’è nel fondo di qualsiasi parte del mondo, e in almeno un anfratto di ciascuno di noi. 
Maradona è il mito già senza la morte che crea il mito.
Aldilà del bene e del male.
Rabbia e fantasia.
Gioia dispensata senza nulla chiedere in cambio.
‘No importa que hiciste con tu vida, sino lo que hiciste con las nuestras’. 
Si pianga, o si continui a festeggiare.

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Ad Ennio

Ho sempre pensato, nell’estratto conto della mia vita, di avere avuto più uscite che entrate. La sensazione che il mio do ut des non abbia l’equilibrio meritato.
Fatico a pensare ai miei debiti, più che ai miei crediti.
Era una sera di giugno di 2 anni fa, sotto il cielo non ancora convinto del buio delle Terme di Caracalla: la mia contabilità emotiva trovò per un attimo una compensazione.
Un signore anziano dall’incedere tanto incerto quanto nobile, entrava tra gli elementi che avrebbe diretto. Molti in più dei 150 che di lì a poco avrebbero messo di nuovo in note i suoi spartiti: c’erano anche aliti di vento e versi di gabbiano, e tutto sapeva di musica, e tutto sapeva di eternità.
Lo respiravi, l’eterno, in ognuna delle vibrazioni d’orchestra, in ognuno dei suoi passi di cristallo, che sapevi poteva essere, ognuno, l’ultimo di questo fulgido cammino terreno.
Ennio Morricone ha composto trai più grandi capolavori della musica contemporanea, fino a non riconoscere i limiti della contemporaneità; colonne sonore trascendenti le pellicole che avrebbero dovuto soltanto accompagnare.
Ma questo è nulla, nella mia biasimevole gerarchia delle priorità.
Ennio Morricone mi ha concesso di usare le sue opere per il più egoistico degli scopi; mi ha concesso la possibilità di fare, sopra i suoi pentagrammi, qualcosa che non so per quale sovrastruttura emotiva non mi sarebbe stata altrimenti concessa: piangere. Su quei violini o su quell’oboe, che ebbi la fortuna di ascoltare quella sera di giugno. Su quelle note che ti prendono il cuore malmesso avendone cura come qualche dio dovrebbe, su quel pizzico d’archi e soffio di fiati che, forse, è la vita stessa che, con grazia, vola via.

 


Alla fine delle pizze (io li-evito)

Perché, scusate, voi avevate dei dubbi?
Di nuovo troppo, troppo umani.
Perché, scusate, voi pensavate ad un rinascimento della nostra emotività?
Perché, scusate, voi pensavate che a star lontani saremmo diventati tutti oculati filantropi? Pizze.
Pensavate che questa nuova primavera del genere umano ci avrebbe visti nuotare coi delfini trai canali di Venezia, passeggiare coi cinghiali giù dall’entroterra sardo, zompettare grati coi daini affacciatisi alle viuzze deserte d’Abruzzo? Pizze.
E l’aria limpida, e i mari tersi… Pizze.
Tutta questa umanità alla rinfusa, mascherine come caschi a mo’ di girocollo quando si andava in tre sulla vespa.
Ma io, io lo sapevo. Lo sapevo quello che eravamo. Lo capii un giorno lontano dei miei anni di grembiuli blu col fiocco celeste.
Un pomeriggio di quelli come questi, ma senza paura di quello che sarebbe stato. Di quelli che finivano la scuola. Dentro quel sole che profumava di un’estate che, sicuramente, non sarebbe mai finita.
Avevo appena convinto i miei a lasciarmi andare in bici dai nonni. Avevo un’Atala cross. Tre marce e sellone. Casa dei miei nonni era una base spaziale su cui atterravano i miei amici. Quel pomeriggio però erano tutti chiusi in casa: era stato il giorno delle pagelle, lockdown decretato a schiaffi. Io no: io ero bravo. Bravissimo. Quel voto con la penna rossa che fluiva dalla mano della maestra Maria sempre uguale, pie’ di pagina dopo pie’ di pagina.
Gli altri erano dentro, quel giorno, e io fuori. Per tutto l’inverno era stato spesso il contrario.
C’era però anche F.N., sorprendentemente sopravvissuto alle pagelle perché i suoi genitori erano di turno dai suoi nonni, dirimpettai dei miei.
Era un mio compagno di classe, F.N.; avrebbe fatto un dignitoso mestiere di fatica manuale: nessuno gli avrebbe mai detto “è intelligente ma non si applica”.
La nostra maestra ci aveva suggerito di lasciare due paginette in bianco da riempire, nell’estate infinita tra la terza e la quarta elementare, di stelline: una per ogni azione buona. Prodromi dell’autovalutazione.
F.N. mi venne incontro portandosi dietro il quadernino a righe con le pagine vuote e la sorellina con la gonnellina a quadretti, di due anni più giovane.
-Miche’- mi fece all’orecchio -ho un’idea: perché non buttiamo mia sorella sott’a Patula Cupa e poi la riprendiamo!?! Così mettiamo una stellina a testa-.
Io pensai che la somma algebrica degli eventi, pari a 0, non giustificasse il merito.
E che l’umanità non aveva scampo.
Patula Cupa, per i non autoctoni, è un vasto territorio palustre, moderatamente depresso, sovente umido e teatro di malriusciti tentativi di bonifica. Mi ci rivedo molto.


Quaranteena ed altre chiusure

Io penso di essere piccolo e inadatto ogni volta che inizio qualcosa, in qualsiasi ambito. Faccio i conti con le mie ansie, le mie inabilità, le mie insufficienze.
Raccolgo, pondero, setaccio al vaglio dei miei dubbi l’esiguo materiale di cui dispongo ogni volta che devo esprimere una mia personale opinione, coprendola, cagionevole qual è, con duettré preamboli e altrettanti “premesso che”…
No, aspe’, questo non c’entra… Voglio dire…
Ricapitolando.
Se ho ben capito, partendo dall’indice, perché il medio è inelegante:
C’è D’Urso Barbara, conduttrice sparaflashata specializzata in seminari sul lavaggio delle mani, che manda l’inviata in elicottero, o a piedi, non so, all’inseguimento di un impavido runner da spiaggia tipo CSI, o Mic Biuchennon. Come non sapete chi è Mic Biuchennon?
Ah…  si scrive Mitch Buchannon.
Sì, ho fatto una rapida ricerca online. Visto? A volte basta wikipedia. Facile, no?
Che poi, D’Urso Barbara, non so se prima o dopo, si mette a pregare in diretta tv con Salvini Matteo, di mestiere politico d’opposizione (è un mestiere), uno che dice cose e indossa felpe. Cambiandole ogni giorno. Entrambe.
“Lo Stato e la Chiesa cattolica sono, ciascuno nel proprio ordine, indipendenti e sovrani”.
Questa cosa scritta storta poco sopra è parte dell’articolo 7 della Costituzione, che enuncia il principio di laicità dello Stato.
La laicità dello Stato è sacra. E non è qualcosa di anticlericale. Men che meno di anticristiano. Servirebbe a garantire rispettiva autonomia a ordinamento statale e fenomeno religioso, a non dare in pasto la spiritualità ad appetiti pubblici. Scusate, mi perdevo in piccolezze…
Poi c’è Giordano Mario, direttore delle strategie e dello sviluppo dell’informazione delle reti mediaset. Giordano Mario, con voce piritata, inscena una gag esilarante facendo finta di non gradire un raffinato parere di un signore ben vestito rispondente al nome di Feltri Vittorio, direttore del quotidiano Libero e che taluni hanno proposto alla carica di Presidente della Repubblica per il mandato più recente.
“Tutti hanno diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione.
La stampa non può essere soggetta ad autorizzazioni o censure”
.
Questo è parte dell’articolo 21 della Costituzione, che enuncia il principio della libertà di stampa.
La libertà di stampa è sacra. E non vuol dire che ognuno possa scrivere e dire quel che gli pare. Tutt’altro: nella scrittura cresce il peso delle parole, perché delle stesse parole di cui siamo padroni quando appartengono al nostro pensiero, diveniamo servitori, una volta divenute inchiostro e significato. Scusate, mi riperdevo in piccolezze…
Ma, sapete?, io, a loro, non ho niente da dire.
Perché bisogna tessere, aldilà dell’essere, per partecipare. Con caustica costanza capire da chi, e mai dove, andare. Bisogna chiedere, per partecipare. Con insistenza. Senza vergogna. Promettere, se del caso, contropartite, anche se indisponibili.
E a bussare tante volte, alla fine, vi verrà aperto.
Io, a loro, non ho niente da dire. Niente. Perché sono nostra degna, e più alta, rappresentanza. Per voto, somiglianza o aspirazione.
Io a loro, a quelli di prima, non ho niente da dire. Perché sono ciò che gli permettiamo d’essere, e ciò che ci permettiamo d’essere noi, nel nostro più striminzito epilogo di dispensatori d’opinione.
L’opinione aprioristica e oppositiva di chi non sa.
Perché per farci un’opinione, su qualsiasi cosa, abbiamo smesso il fardello del pensiero, dell’informazione. Basta un copia incolla senza ricerca delle fonti. Sul grande fratello come sulla crisi mediorientale, sul campionato di calcio come sulle tematiche razziali, sulla microbiologia come sull’economia internazionale. E questo è il terreno insalubre su cui fonda la propria solidità l’impianto politico, dirigenziale, comunicativo. Del resto, se loro, quelli di prima, sono arrivati dove sono arrivati opinando senza opinione, perché dovrei farlo io, comune plebeo della rete?
Io non ho mai creduto nella meritocrazia, non l’ho mai creduta umanamente conciliabile. Non sarà così nemmeno per quei cristi che bardati delle mancanze degli ultimi vent’anni di gestione pubblica sopravviveranno ai loro colleghi di corsia.
Io non ho mai creduto nella meritocrazia. Ma ho sempre creduto nel merito. Di entrarvi, nel merito. Discutere. Capire. Provarci, almeno.
Vorrei andarmene a farmi sbranare da qualche leone connivente nella savana.
O su Marte per sentirmi meno alieno.
O ventimila Leghe sotto i mari, minimo.
Ma la verità è che mi manca il coraggio per non essere, così come quello per essere. E rimango nel limbo, amorfo e basito. Perché qui, se non sei un coglione o un tifoso, e nemmeno un impavido bombarolo, sei solo un disadattato.
E per quanto la probabilità che io sia destinato a intercettare imbecilli per strada si è notevolmente abbassata a causa del distanziamento sociale, per quanto, per decreto, pare siano attualmente sospese le sedute di laurea presso l’università della strada, basta un clic, e ci sono tutti lo stesso. Dietro a qualunque schermo.
E non c’è bisogno neppure di fare i conti col pudore residuo. Ci sentiamo… a casa.
E loro, quelli di prima, sono la visibilità che noi pagheremmo per avere. Perché questo, la nostra clausura forzata, ci ha detto: noi non siamo in grado di tenere a bada la nostra famelico volontà di mostrarci. Non abbiamo bisogno di uscire, ma di comparire. A qualunque costo, in qualsiasi veste: scienziati ed economisti, virologi e politologi, biologi e statisti. Con sfondi di librerie reali quanto il Vesuvio dietro a Felice Caccamo in Mai dire gol.
Pur senza presunzione di verità, e riservandomi di attendere i dati, anche i morti vostri mi paiono sottostimati.

 


Il sabato sera

Il sabato sera non esco. Da tempo immemorabile ormai se devo farmi a cimitero lo faccio nel feriale. Il sabato sera non esco. Sto a casa. Leggo. Faccio cose. Non vedoggente.
Sabato scorso ho finito di (ri)leggere il Simposio di Platone. Platone l’ha scritto quando ancora non sapeva che sarebbe diventato un aggettivo. Lui, dico.
Poi mi è venuta fame. Casa era vuota. Il frigo era vuoto. Un po’ pur’io.
Vestito della mia Panda bianca sono uscito e ho imboccato la strada di una pizzeria qualsiasi. In questa pizzeria qualsiasi c’era un sabato sera. Con della gente da sabato sera. Non avete idea di quanta gente del sabato sera mi sia passata davanti mentre aspettavo la mia pizza da portare in salvo a casa. Gente soprattutto femmina con tacchi alti e strass. Molti strass. Penso che queste esemplari si comprino proprio le cose per uscire il sabato sera. E si concino per sembrare ragazze del sabato sera. E sono ammirevoli: rischiano lo shock anafilattico sotto quel trucco da far invidia a Moira Orfei; rischiano femori ad ogni passo sopra certi tacchi da far invidia a Moira Orfei. Ai sui trampolieri intendo. Io le guardavo. Forse avranno pensato che fossi interessato a loro. Che gli strass avessero fatto il loro bell’effetto. Vero, comunque: le ho notate.
Sono tornato a casa con la mia pizza. Platone mi ha guardato schifato. Socrate ha vomitato.
Ho pensato che Platone ha scritto il Simposio nel IV secolo a.C.. Ho pensato che questo sabato sera, in quella pizzeria, sia accaduto nel 2019 d.C.. Ho pensato che il tempo si usa chiamarlo progresso.

 


Posture

A ‘na certa, da essere un competitore seriale cronico a fare sport per sé stessi è un attimo. Da qui a muoversi solo per riacquisire una posizione eretta è ancor meno.
Ma tant’è.
Bisogna dotarsi di pazienza, accettare il normale corso delle cose, anche quando sono tue, le cose, cercare il buono che c’è, e continuare a chiedere al proprio corpo, solo con più gentilezza.
Togliamo di mezzo il lattosio, un mese di trattamento detox, sedute di neural e ozonoterapia infiltrate con materno sadismo lungo la mia dorsale, le mani sapienti del mio operatore di fitness di fiducia e la sua panca posturale.
Rimettere bacino e vertebre in asse, dice.
Epperò, pianopianopiano, devo dire… ma non lo dico, eh…
Con nuove e sorprendenti sembianze da bipede, dopo l’ultima seduta, puntando sui gradini inaspettato vigore, risalgo le scale ed entro in macchina. A cigolare è solo la portiera, per una volta. Le mie giunture restano sorprendentemente mute. Mi giro a destra e a sinistra con sufficiente disinvoltura. Ed è pure una giornata di quelle da passeggiarci sopra. Lecce soleggiata e fresca, i caffè aperti.
“Prenditi cura di te”, dice alla televisione una pubblicità di prodotti che non posso più usare.
Me la prendo, allora, un’ora di passeggio. Silenziosa.
Non c’è moltitudine informe che scorre, ma il giusto compromesso di presenze, discrete, identificabili, e senza fretta.
Mi affaccio a qualche vetrina, fingendo di non sapere che siamo a ridosso dei saldi, mi fermo in liberrima, fingendo di saper leggere. Entro in gelateria: ananas e mango, ché alla frutta sono senza lattosio.
-Vuole assaggiare il fico?- mi fa la gelataia. Oggi mi sento che potrei dirle altrettanto, ma ometto.
Riparto. Via Trinchese, direzione Mazzini. Una leccata e un passo. In asse. Postura scrupolosa e fiera. Fino alla macchina.
16.05. Perfetto orario grattino.
Saranno stati anni che non mi permettevo passeggiate pomeridiane per il gusto in sé di farne.
Bene.
Accontentarsi, d’accordo.
Di quattro passi.
Appunto.
Passi che l’incedere non era quello deciso e sprezzante dei vent’anni.
Passi che a Lecce ci sono finito per correggere le mie errate convinzioni posturali.
Passi che alla ricercatezza celata del lino ho dovuto sostituire onesta maglietta traspirante e sneakers con solette plantari in silicone.
Passi che un po’ di tempo fa il gelato l’avrei preso solo dopo un minimo sindacale di birre pomeridiane.
Passi.
Però, cazzo: Piazza Mazzini-Piazza Duomo. Andata e ritorno. L-e-n-t-a-m-e-n-t-e.
E degli sguardi in opposto senso di marcia ai miei occhiali da sole non mi ha fissato nemmeno una donna dai 18 ai 50 anni!
Non mi era mai successo, mai! Fino a due-tre anni fa. Facciamo quattro, sì.
Che cazzo di vita insopportabile, l’età adulta: dover per forza parlare per risultare interessante.


Loggione state of mind

Te ne sei accorto, sì?!?
Hai la doccia già fatta e la fortuna di una rapidissima gestione tricologica: sono opportunità da prendere al volo, di questi tempi.
Ti fa bene, ogni tanto, una serata in cui lo svago non preveda rosticceria d’asporto.
Un piccolo sforzo: devi solo salire in macchina, trovare parcheggio libero su precisa indicazione abusiva, fare la fila ad un botteghino confidando di non incrociare gente che ti imponga un saluto che non avete la minima intenzione di scambiarvi, metterti seduto, spegnere suonerie e silenziare pensieri e aspettare che il sipario si alzi. Sulla vita degli altri eh…
Devi farti platea. Ascoltare se vuoi, gradire se puoi.
Platea, asettica e controllata platea. O moderatamente interessata, al più.
Platea, elegante e raffinata platea. Accavallare le gambe concedendo il giusto risalto al calzino abbinato, disporre il tuo palmo destro per accogliere la cadenza intermittente delle quattro dita dell’altra mano, in segno convenzionale d’apprezzamento.
Essere, se proprio d’essere non può farsene a meno, al di qua: laggiù note svolazzanti, di qua consumo rilassato, laggiù parole ben disposte, di qua matura fruizione postlavorativa.
Sì.
Eppure ce l’ho messa tutta la cura possibile per creare sufficiente distanza emotiva, ieri, al Politeama, tra me e il palco. Ma il loggione no, non è bastato.
Sarà una questione anagrafica, sarà la cura delle parole, sarà che l’ironia mi commuove sempre più del melodramma, sarà la geografia dei contenuti, sarà la somiglianza di eredità e retaggi, sarà l’intolleranza al raffermo e l’idiosincrasia alla novità, sarà che anche per me scrivere cose tristi è più naturale che scrivere cose brutte, saranno Pavese, Dalla e un po’ Jannacci, sarà che mi ci vuole un paese e le profondità del mare, nonostante tutto, sarà che anch’io mi divido cercando di mantenermi integro, sarà la vita troppo pensata, sarà che, ci mancherebbe, so benissimo che il rimpianto è solo un altro modo un po’ infantile per sentirmi intelligente, sarà che nemmeno io so rinunciare a quelle quattro cinque cose a cui non credo neanche più, sarà che limuertitua, Brunori.

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Lo smartfon (effetti collaterali)

Che uno poi mica può sempre rimaner fermo. Ci si deve muovere, smuovere se si fa più fatica, adeguare perfino.
E per esempio capita che, nonostante il mio pressappochismo tecnologico, la mia collaudata avversione a tutto ciò che si regga su bit & byte, nonostante il mio sudato status di tecnoleso sia trascritto sulla mia carta d’identità di nuova stampa, io decida di prendere uno smartphone…
Nulla di straordinario: il più scamuso degli smartphone, il flop della gamma top; giusto per riconsegnare un cellulare avuto in prestito dopo aver distrutto il mio vecchio e rassicurante nokia 81 15-18 per aver sopravvalutato la mia balistica ed aver centrato con lo stesso il pavimento limitrofo al morbido divano ecopelle della dimora cesarina obiettivo della mia rivedibile mira e dei miei inguardabili pomeriggi estivi…
E capita che io ed il più scamuso degli smartphone si provi, seppur entrambi piuttosto dubbiosi ed armati di onesta diffidenza, a far conoscenza… E che io, più a tentoni che a tentativi, provi, come dire, ad intuirne, come dicono, le intuitive funzioni di base; le sole che userò: sms… molto eventualmente bluetooth… contatti e chiamate… chiamate…. ehm chiamate… sì ma… porc… come cazzo è che è partita ‘sta chiamata adesso, e cosa cazzo devo schiacc… quale tasto devo clicc… con quale dito devo touch… come porcoddue la fermo ‘shtachiamata, crishtoiddio!?!?!
Dal mio nuovo smartphone parte la prima chiamata, sprovvista del coessenziale estremo della volontà. Al numero di casa. Sono le 03.15 di una tranquilla notte, secondo più, secondo me-no.
I miei dimostrano ottima reattività catapultati tachicardici fuori dal letto dal gradito trillo.
La tecnologia migliora la vita(?).


Felice genetliaco (anche) a te

Contro quella Cecoslovacchia, l’ultima intera prima che la geopolitica ridisegnasse, sminuzzati, molti dei confini europei, vinciamo 2-0.
Ed il secondo gol è un dipinto di un giovanissimo calciatore che sarebbe diventato, per molti, il più forte calciatore italiano del dopoguerra.
Uno-due con Giannini, la palla sfiorata con morbidezza, d’esterno, un dribbling e poi un altro, l’ultima finta di corpo è da museo del calcio: il difensore va via senza nemmeno bisogno di un altro tocco, perché l’ultimo servirà a Roberto Baggio per mettere la palla alle spalle del portiere.
Stadi gremiti di rivalsa e televisioni sotto cieli d’Estate. Gli scarpini di pelle nera appena comprati già ai piedi per ripetere l’inimitabile.
È il 1990. La gioia dei miei 11 anni era la gioia di un popolo intero.
Baggio è poesia. Ed è di tutti, perché non appartiene a nessuno.
Baggio avrebbe indossato molte maglie, mescolato colori e religioni da spalti, costretto da meccanismi di mercato e da mister devoti al proprio credo schematico che, nonostante gli sforzi, non avrebbero ingabbiato la sua fantasia.
Baggio avrebbe indossato molte maglie. Ma mai nessuna gli vestiva bene come quella azzurra.
Baggio è poesia. E lo sarebbe stato ancora.
Nel mondiale americano del 1994, dopo un girone passato solo per la differenza reti, avrebbe preso per mano la nazionale di Sacchi, ed in mano le sorti del mondiale, a 3 minuti dall’eliminazione. Una palla messa nei soli 30 centimetri possibili, tra il palo e la mano protesa del portiere, e tacchi e punte di fattura meno nobile dei suoi.
Baggio avrebbe segnato ancora alla Nigeria, e poi alla Spagna, e due volte alla Bulgaria, portandoci in finale a Pasadena.
Ma la poesia non è perfetta, sarebbe troppo banale. Baggio sbaglierà il rigore decisivo, forse tradito da qualche vecchio bullone messo a sostegno di quelle ginocchia fragili e martoriate.
La poesia non è perfetta.
Baggio ha messo la palla troppo in alto.
Qualcuno dirà che quello era un passaggio a Dio.
Perché a poche espressioni del genio di taluni è concesso divenire patrimonio del vissuto comune.
Oggi Roberto Baggio ha 50 anni. Noi ex ragazzini innamorati si guarda bulimici le tv a pagamento cercando surrogati di quel talento di cristallo, desti al sogno di ripercorrere le sue gesta.
Quel che resta è incredulo incanto. La leggerezza immanente della corsa, la memoria ingenua di quella finta, la purezza di ciò che eravamo, ch’è tutta in quel tocco senza rumore.


La mia sulla neve

Sapete, ci sono cose che cadenzano le vite più di altre: è una questione di frequenza, di densità. Ci sono cose che si ripetono con una tale costanza che non sapremo mai quando è stata la prima e difficilmente avremo piena percezione di quando sarà l’ultima. Ce ne sono altre che invece accadono con una frequenza talmente esigua che ci permette d’avvertirne immediatamente la densità.
La densità della coltre bianca che in questi giorni ha avvolto alberi, segnali stradali e pettirossi intirizziti, coperto tetti e auto, scoperto ricordi.
L’ultima volta che il Salento ha visto così tanta neve era il 1987. Io avevo sette anni.
Mi ricordo un piumino verde con degli ombrellini disegnati, un cancello aperto sopra un esile vicolo bianco che mi pareva la discesa libera di Kitzbuhel, un pupazzo di neve col naso di carota e gli occhi di bottoni.
In realtà non so bene se sia davvero un ricordo così chiaro o se mi sia stato a più riprese rinverdito da qualche foto sbiadita, di quelle che si conservavano infilandole nelle pellicole 9×13 di piccoli raccoglitori. Foto senza appello né margine d’errore: l’istante fermato non si poteva modificare, ritoccare, inquinare. E il rullino era un delicato testimone da passare al fotografo di fiducia, unico artefice della postproduzione.
Sta di fatto che da quel 1987, da quelle foto dai colori rosastri che filtri moderni si ostinano voler richiamare, sono trascorsi quasi trent’anni, che quel piumino verde sarà stato affidato a qualche raccolta di indumenti usati che saltuariamente usiamo per lavarci le coscienze, che quel piccolo vicolo è ora solo un piccolo vicolo, che quel pupazzo di neve si sarà stancamente ripiegato su sé stesso cambiando il proprio stato di materia, e che molte delle persone che c’erano non ci sono più.
La densità. Dopo trent’anni. E chissà tra quanti la prossima volta.
Così ho preso a camminare, osservatore bulimico dei contorni ripassati e dei perimetri ingentiliti dal biancore. A percorrere avidamente i tratti che la neve aveva segnato, a girare per gli uliveti, per i vigneti scheletriti, per le coste sorprese. A vedere i posti della mia vita come mai li avevo visti e come, chissà, quando e se mai, così, rivedrò.
Ho fatto prima metri ciondolante, poi chilometri privo di catene, che meglio sarebbe stato il solo senso metaforico.
Ho guardato panorami di zucchero filato e mi sono fermato sopra la meraviglia delle piccole cose.
Mi sono domandato perché, quando cade la tristezza in fondo al cuore, come la neve non faccia rumore. Come avevano già fatto, mi pare.
Bella, tutta quella malinconia bianca.
Ho voluto tuffarmi e sporcare la coltre vergine, perché, a volte, tocca sporcare le cose per poterle imparare.
Sono stato verso spiagge lattee già dure e calpestate, e in posti ancora morbidi, dove solo i fiocchi avevano preceduto le mie scarpe.
Ho inzuppato calzini e asciugato il mio cane da slitta senza slitta. Ho condiviso gesti maldestri con altri pezzi di vita semoventi.
Ho sguinzagliato emozioni inflazionate ed ho saputo goderne. Perché spesso le emozioni non hanno alcuna fantasia, e riescono nel miracolo dell’assurdo di essere intime e popolari allo stesso tempo.
Ho voluto prendermele tutte, queste ore gelide. E non ho avuto freddo.
Ho rubato immagini che potessero ricordarmela, la leggerezza della neve.
Scatti in digitale da guardare in quei momenti in cui sono più pesanti, i miei pensieri.
E va bene, d’accordo, mi dispiace per i clochard morti -i barboni si chiamano clochard, quando muoiono-, e mi dispiace per l’agricoltura in ginocchio. Ma mi dispiace anche per ogni altra sensibilità sopita. Per ogni ricordo abbandonato.
Ché tra un po’ diventerà tutto ghiaccio sporco, perché tocca sporcare le cose, per poter proseguire.
Ed “è capace”, sapete, che carichi anch’io qualche foto con la neve. Ed ecco qual è, alla fine, il motivo malcelato di queste pretestuose profondità in forma scritta: mi siano al riparo le gonadi dal vostro tedio, cari anticonformisti surgelati, ché a volte, per scoprir talune verità cilindriche, non c’è nemmeno bisogno d’aspettar che si sciolga…

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