(la vera) Storia di Babbo Natale, 2018 (stralcio…)

(…) la definitiva resa di qualsiasi residuale stoica speranza dell’esistenza di Babbo Natale la maturai qualche tempo dopo: l’albero di Natale di casa mia era coperto da un congegno di lucine iperbolico, che adeguava la propria intermittenza a tre musichette natalizie, che potevi scegliere dal piccolo telecomando.
Le strane interferenze dell’impianto elettrico facevano sì che, ogni volta che si accendesse la luce delle scale, partisse la famigerata nenia, ad ogni ora, soprattutto quando tornavo alticcio nella speranza di non essere sentito in una delle nottate prenatalizie.
Fu così, pochi anni prima, che scoprii mio padre caricare quei pacchi: accese la luce delle scale e partì quella nenia, inesorabile.
Io mi svegliai sulle note del jingle natalizio più metallico mai sentito e anche la mia vista appurò la presenza di mia madre al confezionamento e di mio padre al trasporto pacchi.
Nessuna traccia dell’omone in rosso né del suo sacco, nessuno gnomo ad impacchettare né alcuna renna parcheggiata a mezz’aria nelle vicinanze del mio garage. Saranno state le 3 di notte; avrò avuto… vent’anni, ma fu egualmente un colpo duro e definitivo.
Si manteneva una parvenza di leggenda giusto per cugini e cuginetti che invadevano la mia casa al mattino presto mentre io ero di solito semicollassato a letto.
Ma quell’anno, alla solita domanda “Ma, per caso, non hai sentito uno strano rumore ‘stanotte?”, mia madre e la sua ansia furono meno pronte anche di fronte ai pargoli di famiglia: “Stanotte? Dove? Cosa? Chessuccesso?!?”.
L’ansia. Sì. Perché il Natale era un concentrato spaventoso d’ansia e disagio collettivo.
Già dover festeggiare a tutti i costi.
Far combaciare esattamente i pranzi e le cene in famiglia, talmente lunghi che si intersecavano. Negli intervalli Malox e via, per l’ennesima visita ai parenti infermi dovendo dire ti vedo meglio senza averlo mai visto prima.
E quelle intermittenze fulminate sui presepi e le pecorelle con tre gambe che a giorni alterni stramazzavano al suolo di carta roccia che tocca dire lo stesso machebello zia Lucia!!!
L’ansia. Dover prendere pensieri e pensierini per tutti.
E cambiare la confezione alle bottiglie ricevute negli ultimi tre lustri da riciclare stando attenti che non arrivino esattamente al primo che aveva generato la spaventosa catena di santantonio.
L’ansia. Dover scambiarsi gli auguri telefonici con le bocche tappate con le rimanenze dei panettoni d’uva passa e il tempo che no, non ne vuole sapere.
E baci un po’ unti a schiaffeggiare guance a caso della moltitudine augurale.
Chiedendo alla solitudine di non parlare,
che non sia mai farci scoprire soli da altre persone sole.
Chiedere alla solitudine di non parlare, nemmeno stavolta.
Chiedersi di resistere ancora, che tanto poi passa, dai… forse passa…

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Portato in scena da Francesco Zecca. Musiche a cura di Martina Zecca, Alessandro Dell’Anna, Marcovalerio Sabato.
Alle mie parole piace stare in buona compagnia.

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