Quaranteena ed altre chiusure

Io penso di essere piccolo e inadatto ogni volta che inizio qualcosa, in qualsiasi ambito. Faccio i conti con le mie ansie, le mie inabilità, le mie insufficienze.
Raccolgo, pondero, setaccio al vaglio dei miei dubbi l’esiguo materiale di cui dispongo ogni volta che devo esprimere una mia personale opinione, coprendola, cagionevole qual è, con duettré preamboli e altrettanti “premesso che”…
No, aspe’, questo non c’entra… Voglio dire…
Ricapitolando.
Se ho ben capito, partendo dall’indice, perché il medio è inelegante:
C’è D’Urso Barbara, conduttrice sparaflashata specializzata in seminari sul lavaggio delle mani, che manda l’inviata in elicottero, o a piedi, non so, all’inseguimento di un impavido runner da spiaggia tipo CSI, o Mic Biuchennon. Come non sapete chi è Mic Biuchennon?
Ah…  si scrive Mitch Buchannon.
Sì, ho fatto una rapida ricerca online. Visto? A volte basta wikipedia. Facile, no?
Che poi, D’Urso Barbara, non so se prima o dopo, si mette a pregare in diretta tv con Salvini Matteo, di mestiere politico d’opposizione (è un mestiere), uno che dice cose e indossa felpe. Cambiandole ogni giorno. Entrambe.
“Lo Stato e la Chiesa cattolica sono, ciascuno nel proprio ordine, indipendenti e sovrani”.
Questa cosa scritta storta poco sopra è parte dell’articolo 7 della Costituzione, che enuncia il principio di laicità dello Stato.
La laicità dello Stato è sacra. E non è qualcosa di anticlericale. Men che meno di anticristiano. Servirebbe a garantire rispettiva autonomia a ordinamento statale e fenomeno religioso, a non dare in pasto la spiritualità ad appetiti pubblici. Scusate, mi perdevo in piccolezze…
Poi c’è Giordano Mario, direttore delle strategie e dello sviluppo dell’informazione delle reti mediaset. Giordano Mario, con voce piritata, inscena una gag esilarante facendo finta di non gradire un raffinato parere di un signore ben vestito rispondente al nome di Feltri Vittorio, direttore del quotidiano Libero e che taluni hanno proposto alla carica di Presidente della Repubblica per il mandato più recente.
“Tutti hanno diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione.
La stampa non può essere soggetta ad autorizzazioni o censure”
.
Questo è parte dell’articolo 21 della Costituzione, che enuncia il principio della libertà di stampa.
La libertà di stampa è sacra. E non vuol dire che ognuno possa scrivere e dire quel che gli pare. Tutt’altro: nella scrittura cresce il peso delle parole, perché delle stesse parole di cui siamo padroni quando appartengono al nostro pensiero, diveniamo servitori, una volta divenute inchiostro e significato. Scusate, mi riperdevo in piccolezze…
Ma, sapete?, io, a loro, non ho niente da dire.
Perché bisogna tessere, aldilà dell’essere, per partecipare. Con caustica costanza capire da chi, e mai dove, andare. Bisogna chiedere, per partecipare. Con insistenza. Senza vergogna. Promettere, se del caso, contropartite, anche se indisponibili.
E a bussare tante volte, alla fine, vi verrà aperto.
Io, a loro, non ho niente da dire. Niente. Perché sono nostra degna, e più alta, rappresentanza. Per voto, somiglianza o aspirazione.
Io a loro, a quelli di prima, non ho niente da dire. Perché sono ciò che gli permettiamo d’essere, e ciò che ci permettiamo d’essere noi, nel nostro più striminzito epilogo di dispensatori d’opinione.
L’opinione aprioristica e oppositiva di chi non sa.
Perché per farci un’opinione, su qualsiasi cosa, abbiamo smesso il fardello del pensiero, dell’informazione. Basta un copia incolla senza ricerca delle fonti. Sul grande fratello come sulla crisi mediorientale, sul campionato di calcio come sulle tematiche razziali, sulla microbiologia come sull’economia internazionale. E questo è il terreno insalubre su cui fonda la propria solidità l’impianto politico, dirigenziale, comunicativo. Del resto, se loro, quelli di prima, sono arrivati dove sono arrivati opinando senza opinione, perché dovrei farlo io, comune plebeo della rete?
Io non ho mai creduto nella meritocrazia, non l’ho mai creduta umanamente conciliabile. Non sarà così nemmeno per quei cristi che bardati delle mancanze degli ultimi vent’anni di gestione pubblica sopravviveranno ai loro colleghi di corsia.
Io non ho mai creduto nella meritocrazia. Ma ho sempre creduto nel merito. Di entrarvi, nel merito. Discutere. Capire. Provarci, almeno.
Vorrei andarmene a farmi sbranare da qualche leone connivente nella savana.
O su Marte per sentirmi meno alieno.
O ventimila Leghe sotto i mari, minimo.
Ma la verità è che mi manca il coraggio per non essere, così come quello per essere. E rimango nel limbo, amorfo e basito. Perché qui, se non sei un coglione o un tifoso, e nemmeno un impavido bombarolo, sei solo un disadattato.
E per quanto la probabilità che io sia destinato a intercettare imbecilli per strada si è notevolmente abbassata a causa del distanziamento sociale, per quanto, per decreto, pare siano attualmente sospese le sedute di laurea presso l’università della strada, basta un clic, e ci sono tutti lo stesso. Dietro a qualunque schermo.
E non c’è bisogno neppure di fare i conti col pudore residuo. Ci sentiamo… a casa.
E loro, quelli di prima, sono la visibilità che noi pagheremmo per avere. Perché questo, la nostra clausura forzata, ci ha detto: noi non siamo in grado di tenere a bada la nostra famelico volontà di mostrarci. Non abbiamo bisogno di uscire, ma di comparire. A qualunque costo, in qualsiasi veste: scienziati ed economisti, virologi e politologi, biologi e statisti. Con sfondi di librerie reali quanto il Vesuvio dietro a Felice Caccamo in Mai dire gol.
Pur senza presunzione di verità, e riservandomi di attendere i dati, anche i morti vostri mi paiono sottostimati.

 

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