Alla fine delle pizze (io li-evito)

Perché, scusate, voi avevate dei dubbi?
Di nuovo troppo, troppo umani.
Perché, scusate, voi pensavate ad un rinascimento della nostra emotività?
Perché, scusate, voi pensavate che a star lontani saremmo diventati tutti oculati filantropi? Pizze.
Pensavate che questa nuova primavera del genere umano ci avrebbe visti nuotare coi delfini trai canali di Venezia, passeggiare coi cinghiali giù dall’entroterra sardo, zompettare grati coi daini affacciatisi alle viuzze deserte d’Abruzzo? Pizze.
E l’aria limpida, e i mari tersi… Pizze.
Tutta questa umanità alla rinfusa, mascherine come caschi a mo’ di girocollo quando si andava in tre sulla vespa.
Ma io, io lo sapevo. Lo sapevo quello che eravamo. Lo capii un giorno lontano dei miei anni di grembiuli blu col fiocco celeste.
Un pomeriggio di quelli come questi, ma senza paura di quello che sarebbe stato. Di quelli che finivano la scuola. Dentro quel sole che profumava di un’estate che, sicuramente, non sarebbe mai finita.
Avevo appena convinto i miei a lasciarmi andare in bici dai nonni. Avevo un’Atala cross. Tre marce e sellone. Casa dei miei nonni era una base spaziale su cui atterravano i miei amici. Quel pomeriggio però erano tutti chiusi in casa: era stato il giorno delle pagelle, lockdown decretato a schiaffi. Io no: io ero bravo. Bravissimo. Quel voto con la penna rossa che fluiva dalla mano della maestra Maria sempre uguale, pie’ di pagina dopo pie’ di pagina.
Gli altri erano dentro, quel giorno, e io fuori. Per tutto l’inverno era stato spesso il contrario.
C’era però anche F.N., sorprendentemente sopravvissuto alle pagelle perché i suoi genitori erano di turno dai suoi nonni, dirimpettai dei miei.
Era un mio compagno di classe, F.N.; avrebbe fatto un dignitoso mestiere di fatica manuale: nessuno gli avrebbe mai detto “è intelligente ma non si applica”.
La nostra maestra ci aveva suggerito di lasciare due paginette in bianco da riempire, nell’estate infinita tra la terza e la quarta elementare, di stelline: una per ogni azione buona. Prodromi dell’autovalutazione.
F.N. mi venne incontro portandosi dietro il quadernino a righe con le pagine vuote e la sorellina con la gonnellina a quadretti, di due anni più giovane.
-Miche’- mi fece all’orecchio -ho un’idea: perché non buttiamo mia sorella sott’a Patula Cupa e poi la riprendiamo!?! Così mettiamo una stellina a testa-.
Io pensai che la somma algebrica degli eventi, pari a 0, non giustificasse il merito.
E che l’umanità non aveva scampo.
Patula Cupa, per i non autoctoni, è un vasto territorio palustre, moderatamente depresso, sovente umido e teatro di malriusciti tentativi di bonifica. Mi ci rivedo molto.

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