9.40 di una mattina di martedì.
C’è anche il sole… non ho scuse metereologiche al mio stato d’animo uggioso.
Con tempi di reazione geologici poggio entrambi i piedi nudi fuori dal letto.
Riposiziono le mie vertebre perpendicolari al pavimento e mi ritrovo, traslato, in bagno.
Aderisco alla superficie antartica della tazza (che poi non ho mai capito come si può aver inventato l’Ipod, l’Ipad, l’Ibook, l’Iphone e non ancora un copritazza riscaldato) per l’espletamento delle prime funzioni fisiologiche tra alterne fortune, lascito di una fedele sindrome del colon irritabile: la “malattia degli intelligenti”, come dicono gli esperti della psicosomatica. Peraltro è questa unica e sola conferma alla famigerata profezia delle scuole primarie: “signora, suo figlio è intelligente, ma non si applica”. Mai a nessuno che onestamente si dicesse “Signora cara… per impegnarsi suo figlio s’impegna… ma è che è proprio coglione, ed il suo un quoziente intellettivo a malapena gli consentirebbe la deambulazione”. Eppure così ce ne sono, sennò come si spiegherebbero i dati auditel!
Il sole mattutino ha un’altra controindicazione: non mente quando devi fare i conti con lo specchio; la tua faccia è lì, inondata tutta delle stesse frequenze luminose… sarà molto più difficile, oggi, far rientrare questa nuova ruga nel novero di quelle “d’espressione”.
Fidandomi più delle rimembranze tattili, stante temporanea semicecità, accendo la macchina del caffè, pulsante verde, apro il frigo: il mio ritmo sonno-veglia è più ingarbugliato del cubo di rubik, ingerisco 4000 kcalorie giornaliere in ordine tale da suscitare attacchi di panico anche ai dietologi più duttili, non ho rapporti sentimentali stabili tranne l’odio per chi ho amato, non disdegno alcolici né il fumo vanigliato di qualche sigaro; salvo poi pretendere l’espiazione dei miei peccati con 10 cl di fermenti lattici più sopravvissuti che vivi… solo che, cristo, ‘sta mattina sono rimasti solo quelli alla fragola… cioè dai… alla fragola… capisco alla pesca, all’ananas, all’albicocca, alle more, alla papaja, persino alla pappa reale, ma alla fragola…
Butto giù tutto d’un colpo, a torso nudo, come quelli della pubblicità; poi uno spiffero minaccioso consiglia la maglia della salute e la fine del mio minuto privato di celebrità.
Pulsante giallo, il caffè esce, lento, così come i primi interrogativi, vecchi, del nuovo giorno: con o senza zucchero? Dolcevita o camicia? Quando mi si presenterà l’estratto conto del mio credito con la vita?
Vista l’escalation delle domande ritengo opportuno aggiungere una zolletta di zucchero in più.
Mi faccio scorrere qualche litro d’acqua sopra, tiepida, nella speranza di sciogliere tensioni muscolari e grovigli di pensieri; appurata l’inefficacia del metodo, mi cospargo di crema al Q10 per mantenere il coefficiente elastico della pelle (lo hanno detto alla televisione) e spazzolo i denti con movimento ondulo-sussultorio (lo ha detto mio zio).
Non cedo all’ultimo ammiccamento del piumone ancora caldo solo perché ho la barba troppo al punto giusto per restare a casa; quella di tre giorni, che sembra abbandonata lì, al caso di un disordine perfetto.
Ho già fatto benzina? Torno a casa o pranzo fuori? Miles Davis o Charlie Parker? I propri istinti e le proprie passioni giustificano sempre ciò che di sé si lascia per strada?
Inforco il carisma e il sintomatico mistero dei miei occhiali da sole simulando fascinosa fretta.
La macchina parte, l’autoradio canta… Il solito asfalto, che non dimentica di ricordare, le solite curve, che non ricordano di dimenticare, il solito semaforo, rosso, sempre quello, sempre rosso…
Le note di Lou Reed si beffano di me… Perfect Day…
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