Ci sono atleti che, per le loro imprese, saranno ricordati come i grandi delle proprie discipline.
Ci sono atleti, i grandissimi, che con le loro gesta hanno impresso dei segni incancellabili nella storia di quelle discipline.
E poi ci sono atleti che sono diventati le loro discipline.
Quando nell’immaginario collettivo non c’è più quella disciplina senza il suo simbolo.
E, forse, nel suo simbolo, è la disciplina a poter sopravvivere a se stessa.
Giocare come Rivera.
Pedalare come Coppi.
Guidare come Ayrton.
E quando la disciplina sportiva è la regina di tutte, quando ripercorre un gesto atavico nato con l’istinto all’umana sopravvivenza, nell’uomo non si identifica solo la disciplina ma il gesto primordiale che la sussume.
Correre.
Come Mennea.
Tutti abbiamo corso come lui.
Scalzi. Controvento. Anche solo ad occhi chiusi, sorpresi con le braccia levate in segno di vittoria.
Pietro Mennea da Barletta si laurea in scienze politiche, scienze dell’educazione motoria, giurisprudenza e lettere. È autore di numerosi titoli pubblicati. È avvocato, commercialista, giornalista pubblicista. È baluardo scomodo nella lotta al doping prima della sua stessa esistenza burocratica.
Ha poco tempo, Mennea, tra tutto questo: gli restano solo 19 secondi e 72 centesimi.
Per percorrere 200 metri del tartan di Città del Messico.
Per sconfiggere il naturale razzismo della velocità.
Era il 1979.
D’allora, per 17 anni, più nessuno avrebbe corso come lui.
D’allora, per sempre, tutti avremmo corso come lui.
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