Ho sempre pensato, nell’estratto conto della mia vita, di avere avuto più uscite che entrate. La sensazione che il mio do ut des non abbia l’equilibrio meritato.
Fatico a pensare ai miei debiti, più che ai miei crediti.
Era una sera di giugno di 2 anni fa, sotto il cielo non ancora convinto del buio delle Terme di Caracalla: la mia contabilità emotiva trovò per un attimo una compensazione.
Un signore anziano dall’incedere tanto incerto quanto nobile, entrava tra gli elementi che avrebbe diretto. Molti in più dei 150 che di lì a poco avrebbero messo di nuovo in note i suoi spartiti: c’erano anche aliti di vento e versi di gabbiano, e tutto sapeva di musica, e tutto sapeva di eternità.
Lo respiravi, l’eterno, in ognuna delle vibrazioni d’orchestra, in ognuno dei suoi passi di cristallo, che sapevi poteva essere, ognuno, l’ultimo di questo fulgido cammino terreno.
Ennio Morricone ha composto trai più grandi capolavori della musica contemporanea, fino a non riconoscere i limiti della contemporaneità; colonne sonore trascendenti le pellicole che avrebbero dovuto soltanto accompagnare.
Ma questo è nulla, nella mia biasimevole gerarchia delle priorità.
Ennio Morricone mi ha concesso di usare le sue opere per il più egoistico degli scopi; mi ha concesso la possibilità di fare, sopra i suoi pentagrammi, qualcosa che non so per quale sovrastruttura emotiva non mi sarebbe stata altrimenti concessa: piangere. Su quei violini o su quell’oboe, che ebbi la fortuna di ascoltare quella sera di giugno. Su quelle note che ti prendono il cuore malmesso avendone cura come qualche dio dovrebbe, su quel pizzico d’archi e soffio di fiati che, forse, è la vita stessa che, con grazia, vola via.
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