Archivi categoria: Cose che ho scritto io e che, nonostante questo, condivido

Musica da camera

Come vorrei che ci fosse un chitarrista,
seduto sul mio letto
Un piccolo chitarrista con gli occhiali grossi e le dita veloci
a infilare dentro le corde le parole che scrivo,
o anche quelle che riesco solo a pensare
Che ci sarebbe un grande concerto,
nella mia stanza,
coi libri mai letti e i cd messi stretti a sentire,
qualche amico su carta lucida, fermato prima del digitale,
il loggione ricolmo di vecchi giornali,
la tv che si spegne per restare a guardare
E al sipario delle lenzuola,
anche le camicie più schive
chiederanno il bis dell’ultimo pezzo,
quello delle cose non dette
Ché le dimenticano presto le cose che ascoltano,
quelli nella mia stanza,
come tutto quello che hanno ascoltato
Le telefonate gridate, i lamenti d’amore,
le cose iniziate e il sentirmi morire.

Storia dell’Estate 2017 (stralcio)


Però forse è vero che passa tutto più in fretta, mano a mano. Due anni fa ho preso un cane…
O era dodici anni fa… ma no… l’ho preso adesso…
Ma è appena morto… no, è appena nato…
Due anni fa ho preso un cane.
Sarà perché con quattro zampe tutto corre un po’ più veloce, ma un giorno per loro non impiega lo stesso tempo di un giorno per noi.
Un giorno per loro ci mette un tempo diverso per passare, anche quel giorno impiegato solo ad aspettarmi.
A volte il suo tempo corre così veloce che per quanto sia piccolo il tempo usato per aspettarmi, mi accoglierà sempre come fossi mancato per una vita intera, leccandomi la sua gratitudine ad ogni ritorno.
Anche se sono uscito solo per gettare la spazzatura, o per esser certo di aver chiuso la macchina.
Lui non ha altro da aspettare se non me.
E quando ci sono non ha altro da vivere.
Passiamo la nostra esistenza pensando così tanto a quanto sia difficile vivere senza contare per nessuno, che non badiamo a quanto sia insostenibile che qualcuno dipenda totalmente da noi.
Il mio cane mi ha insegnato quanto sia piccolo il tempo che si ha a disposizione, mentre noi pensiamo di averne sempre più di quello che abbiamo già trascorso.
È come se anch’io, in qualche modo, pensassi e vivessi un tempo diverso, un tempo quadrupede.

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Anconvenscional lov

Lei, timide gote di pesca
Lui, anello d’oro con testa di leone
Lei, profumo di fiori di loto
Lui, irsuto pelo fuor di canotta
Poca notte li unì
Lei, rugiada, rivestì la pelle di luna
Lui, unto, asciugò la polpa paonazza

“È la prima volta, da quando la mia unica donna fuggì tre lustri fa. Vorrei rivederti, se non disturbo” sussurrò tremulo d’amore.
“Cento euri” disse lei a palmo aperto distratta dalla fretta del nuovo incontro ad ore.


Tartarughe e corpi celesti

Io, se non ho saputo male, ho davanti assai meno tempo del sole

Ed anche di ogni altro astro conosciuto, se non ho saputo male

E di ogni pianeta del sistema solare, debbo avere, mi pare

Meno degli ulivi secolari, se non li tagliano

Delle sequoie tutte

E di qualche mandarino. Albero, intendo

Di quelli che ci rubi in fretta i frutti, da piccolo, quando non t’interessa troppo quanto tempo resta, ché l’importante era scappare

Anche meno, ho letto, di molte specie di tartarughe ne ho, che sarà perché vanno piano

Che poi non s’immagina a cosa serva, tutto ‘sto tempo

Magari quel lento e grosso animale, non dico di no, lo bestemmia tutto quel tempo che avanza

Magari qualche corpo celeste si stancherà pure di stare nei cieli infiniti a girare le orbite che un noto geometra gli disegnò

Ma mica è bello noi qui con l’ansia che stia per passare

Pur vero è che altri esseri ne hanno ancor meno, di tempo,

ma quelli no, mica lo sanno e chi se ne fotte

Guarda, ci pensi?, è davvero da uscire di testa, che ci son tartarughe che c’erano già quando non c’era nessuno di noi e ora ancora ci sono

O che il sole farà caldo di mattine di aprile che nessuno sentirà

E intanto qui giù lo passiamo così, lo spicchio di tempo che ci è dato usare:

a cercare chi, mentre come si può ci si faccia all’amore, per un tempo piccolo ce lo faccia scordare

quel piccolo tempo che ci è dato usare

Fremito di foglia incurante di quando si possa staccare


Apologia della timidezza

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 


Nella cesta dei giochi dimenticati

In questo gioco non conta chi esiste e chi no
In questo gioco non serve aspettare
In questo gioco non ci sono abitudini, nemmeno sperare
In questo gioco ci sono puntini che si possono unire
In questo gioco non c’è una cosa da fare
In questo gioco non ci sono misure,
così nulla resta a metà
In questo gioco fa fresco ed è la mattina di un giorno senza ore
In questo gioco non esiste la fame né la sazietà
In questo gioco ci sono gelati al caffè che si sciolgono senza appiccicare
In questo gioco i soffitti ti ascoltano se hai una storia da raccontare
e scrivendo fumetti dentro i bordi delle nuvole, i più alti, puoi farli parlare
In questo gioco puoi correre senza stancarti,
o far finta, se vuoi cadere sull’erba del prato appena incontrato
In questo gioco puoi sollevare un elefante gigante con una mano soltanto
In questo gioco non c’è niente di grave o leggero
Non c’è un sopra né un sotto, nemmeno
E i punti cardinali spesso non sanno dove andare
In questo gioco puoi toccare le tette di chi ti piace
Puoi suonare i campanelli senza scappare
In questo gioco non grida nessuno, perché non c’è nessuno da svegliare
ché il sonno non serve perché non serve sognare
In questo gioco “bene” è quello che mi vuole il mio cane,
quando torno e ogni volta mi viene a cercare
In questo gioco sei un cantante, un astronauta o anche Bud Spencer, a esagerare
un pianoforte coi tasti a colori o il capotreno di treni inventati che non riesci a fermare
In questo gioco c’è un pazzo che l’infinito vuole contare
e persone sane che gli prestano dita per non perdere il conto parziale
In questo gioco si mettono in fila mille parole,
che se escludi promesse e poesie
quello che vuoi puoi farcele diventare
In questo gioco non c’è il bene e il male
In questo gioco ti prendo la mano e ti porto con me
In questo gioco non tremo, se guardo negli occhi le paure che ho
In questo gioco ti porto con me
In questo gioco non devo pensare
In questo gioco basta nuotare
In questo gioco si può respirare tra le mille specie del mare
In questo gioco ci si uccide ma non si muore
In questo gioco anche col la morte si può farci l’amore
In questo gioco nessuno dice che poi tutto finisce
In questo gioco non c’è futuro né passato
In questo gioco ti prendo la mano
In questo gioco, che l’ho dimenticato

https://www.youtube.com/watch?v=uSGeLtB9e38


Histoire d’un étranger à Lausanne” (stralcio)


Caro Fabrice,
dovevo andare.
È difficile, ma dovevo andare.
Il mio paese è malato.
Ci s’infila al pranzo domenicale pronti a riservare coltelli ai commensali.
Il mio paese è malato.
Si accetta la verità più comoda pur di non affrontare la responsabilità del dubbio.
Il mio paese è malato.
Si indossa il vestito migliore e non ci sono figli né mogli che siamo in grado di rispettare sotto il nostro sorriso di circostanza,
e non ci sono madri né dolori che siamo in grado di rispettare sotto il nostro pianto di circostanza.
Come quando mischi indeciso sopra un piattino di plastica tre o quattro colori a tempera e ti esce quell’incrocio cacchinaverdinomarroncinosenape, che poi puoi infilarci qualsiasi colore azzurrissimogiallissimoverdissimo ma che ormai non cambia più. Solo fagocita sfumature e le rassomiglia a sé. È così, il mio paese.

Portato in scena da Beatrice Pezzuto, con Michael Alexanian


Volo d’airone (decasillabo)

Infima mossa è il giudicare,
del dubbio ei possa beneficiare.
Sono opinioni tutti i giudizi,
ciò che asseriamo soltanto indizi.
 
Dal treno in corsa punti di vista:
si porga un freno, al macchinista.
Sia relativa ogni invettiva:
cambi sovente la prospettiva!
 
Certo, all’assunto, qualcuno sfugge,
e, questo è il punto, ciò non mi strugge:
tu, sopra mari, volo d’airone,
anche da un drone resti un coglione.

Millemila lune (almeno)

Ma quante pause da sé possono prendersi, esattamente, senza morire?
E quali pezzi si devono soffocare per sopravvivere?

E quanto uno può divenire senza rinunciarsi?

E di che colore sono le ore che mancano al mattino?

E quanto conta chiedersi scusa?
Se sapessi suonare il sax me ne andrei sopra la più vecchia luna e starei lì a suonare per tutti i cani e gli astronauti di passaggio.
Poggerei un cappello ai miei piedi,
se lo trovo, di paglia
e non farei metterci nessuna moneta,
ma solo delle cose da buttare che non facciano rumore.
E terrei la bocca così piena di fiato da non potermi fare domande, più.
Suonerei finché ce ne sarà bisogno. Ché ce n’è bisogno. Di suonare per far piangere chi piangere non sa.
Ce n’è bisogno di piangere perché ti si dica “è tutto a posto” uno che si trovi lì.
E che ti asciughi e ti lasci il suo fazzoletto e voli via di nuovo,
ché ci son millemila lune almeno (ma credo di più) con concerti di notte sopra uomini da asciugare.


Domande da porci

Ma se ci si sveglia depressi si può parlare di vilipendio all’alzabandiera?
Ma per un onanista pigro che si sposta in bagno, può parlarsi di turismo sessuale?
Ma se io suono il pianoforte, lei il violino e lui la tromba si può parlare di complesso?
Ma se lei vota pd e lui la lega si può parlare di masochismo?
Ma se un missionario prende posizione è sempre la più comoda?
Ma il kamasutra del sesso orale prevede figure retoriche?
Ma il coitus interruptus può considerarsi anacoluto?
Ma si parla di ratto delle sabine perché erano tope straordinarie?
Ma un nudo integrale può essere grasso?
Ma Bruno Mars è la versione al cioccolato fondente?
Ma prima del viagra il gusto puffo finiva prima?
Ma chi pratica l’autoerotismo è soggetto a limiti di velocità?
Ma la Rosa dei venti è una nota pornostar dedita alle gang bang?
Ma soprattutto, gli interrogativi, a letto, diventano esclamazioni?