Contro quella Cecoslovacchia, l’ultima intera prima che la geopolitica ridisegnasse, sminuzzati, molti dei confini europei, vinciamo 2-0.
Ed il secondo gol è un dipinto di un giovanissimo calciatore che sarebbe diventato, per molti, il più forte calciatore italiano del dopoguerra.
Uno-due con Giannini, la palla sfiorata con morbidezza, d’esterno, un dribbling e poi un altro, l’ultima finta di corpo è da museo del calcio: il difensore va via senza nemmeno bisogno di un altro tocco, perché l’ultimo servirà a Roberto Baggio per mettere la palla alle spalle del portiere.
Stadi gremiti di rivalsa e televisioni sotto cieli d’Estate. Gli scarpini di pelle nera appena comprati già ai piedi per ripetere l’inimitabile.
È il 1990. La gioia dei miei 11 anni era la gioia di un popolo intero.
Baggio è poesia. Ed è di tutti, perché non appartiene a nessuno.
Baggio avrebbe indossato molte maglie, mescolato colori e religioni da spalti, costretto da meccanismi di mercato e da mister devoti al proprio credo schematico che, nonostante gli sforzi, non avrebbero ingabbiato la sua fantasia.
Baggio avrebbe indossato molte maglie. Ma mai nessuna gli vestiva bene come quella azzurra.
Baggio è poesia. E lo sarebbe stato ancora.
Nel mondiale americano del 1994, dopo un girone passato solo per la differenza reti, avrebbe preso per mano la nazionale di Sacchi, ed in mano le sorti del mondiale, a 3 minuti dall’eliminazione. Una palla messa nei soli 30 centimetri possibili, tra il palo e la mano protesa del portiere, e tacchi e punte di fattura meno nobile dei suoi.
Baggio avrebbe segnato ancora alla Nigeria, e poi alla Spagna, e due volte alla Bulgaria, portandoci in finale a Pasadena.
Ma la poesia non è perfetta, sarebbe troppo banale. Baggio sbaglierà il rigore decisivo, forse tradito da qualche vecchio bullone messo a sostegno di quelle ginocchia fragili e martoriate.
La poesia non è perfetta.
Baggio ha messo la palla troppo in alto.
Qualcuno dirà che quello era un passaggio a Dio.
Perché a poche espressioni del genio di taluni è concesso divenire patrimonio del vissuto comune.
Oggi Roberto Baggio ha 50 anni. Noi ex ragazzini innamorati si guarda bulimici le tv a pagamento cercando surrogati di quel talento di cristallo, desti al sogno di ripercorrere le sue gesta.
Quel che resta è incredulo incanto. La leggerezza immanente della corsa, la memoria ingenua di quella finta, la purezza di ciò che eravamo, ch’è tutta in quel tocco senza rumore.
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Felice genetliaco (anche) a te
La mia sulla neve
Sapete, ci sono cose che cadenzano le vite più di altre: è una questione di frequenza, di densità. Ci sono cose che si ripetono con una tale costanza che non sapremo mai quando è stata la prima e difficilmente avremo piena percezione di quando sarà l’ultima. Ce ne sono altre che invece accadono con una frequenza talmente esigua che ci permette d’avvertirne immediatamente la densità.
La densità della coltre bianca che in questi giorni ha avvolto alberi, segnali stradali e pettirossi intirizziti, coperto tetti e auto, scoperto ricordi.
L’ultima volta che il Salento ha visto così tanta neve era il 1987. Io avevo sette anni.
Mi ricordo un piumino verde con degli ombrellini disegnati, un cancello aperto sopra un esile vicolo bianco che mi pareva la discesa libera di Kitzbuhel, un pupazzo di neve col naso di carota e gli occhi di bottoni.
In realtà non so bene se sia davvero un ricordo così chiaro o se mi sia stato a più riprese rinverdito da qualche foto sbiadita, di quelle che si conservavano infilandole nelle pellicole 9×13 di piccoli raccoglitori. Foto senza appello né margine d’errore: l’istante fermato non si poteva modificare, ritoccare, inquinare. E il rullino era un delicato testimone da passare al fotografo di fiducia, unico artefice della postproduzione.
Sta di fatto che da quel 1987, da quelle foto dai colori rosastri che filtri moderni si ostinano voler richiamare, sono trascorsi quasi trent’anni, che quel piumino verde sarà stato affidato a qualche raccolta di indumenti usati che saltuariamente usiamo per lavarci le coscienze, che quel piccolo vicolo è ora solo un piccolo vicolo, che quel pupazzo di neve si sarà stancamente ripiegato su sé stesso cambiando il proprio stato di materia, e che molte delle persone che c’erano non ci sono più.
La densità. Dopo trent’anni. E chissà tra quanti la prossima volta.
Così ho preso a camminare, osservatore bulimico dei contorni ripassati e dei perimetri ingentiliti dal biancore. A percorrere avidamente i tratti che la neve aveva segnato, a girare per gli uliveti, per i vigneti scheletriti, per le coste sorprese. A vedere i posti della mia vita come mai li avevo visti e come, chissà, quando e se mai, così, rivedrò.
Ho fatto prima metri ciondolante, poi chilometri privo di catene, che meglio sarebbe stato il solo senso metaforico.
Ho guardato panorami di zucchero filato e mi sono fermato sopra la meraviglia delle piccole cose.
Mi sono domandato perché, quando cade la tristezza in fondo al cuore, come la neve non faccia rumore. Come avevano già fatto, mi pare.
Bella, tutta quella malinconia bianca.
Ho voluto tuffarmi e sporcare la coltre vergine, perché, a volte, tocca sporcare le cose per poterle imparare.
Sono stato verso spiagge lattee già dure e calpestate, e in posti ancora morbidi, dove solo i fiocchi avevano preceduto le mie scarpe.
Ho inzuppato calzini e asciugato il mio cane da slitta senza slitta. Ho condiviso gesti maldestri con altri pezzi di vita semoventi.
Ho sguinzagliato emozioni inflazionate ed ho saputo goderne. Perché spesso le emozioni non hanno alcuna fantasia, e riescono nel miracolo dell’assurdo di essere intime e popolari allo stesso tempo.
Ho voluto prendermele tutte, queste ore gelide. E non ho avuto freddo.
Ho rubato immagini che potessero ricordarmela, la leggerezza della neve.
Scatti in digitale da guardare in quei momenti in cui sono più pesanti, i miei pensieri.
E va bene, d’accordo, mi dispiace per i clochard morti -i barboni si chiamano clochard, quando muoiono-, e mi dispiace per l’agricoltura in ginocchio. Ma mi dispiace anche per ogni altra sensibilità sopita. Per ogni ricordo abbandonato.
Ché tra un po’ diventerà tutto ghiaccio sporco, perché tocca sporcare le cose, per poter proseguire.
Ed “è capace”, sapete, che carichi anch’io qualche foto con la neve. Ed ecco qual è, alla fine, il motivo malcelato di queste pretestuose profondità in forma scritta: mi siano al riparo le gonadi dal vostro tedio, cari anticonformisti surgelati, ché a volte, per scoprir talune verità cilindriche, non c’è nemmeno bisogno d’aspettar che si sciolga…

Senuttescerrimai delleradicicatieni
E comunque, non per togliere credito all’ampio dibattito geopolitico generatosi ma, questo, è uno che, suo figlio, l’ha chiamato Nathan Falco.
Che non basta quello che diranno alla madre del piccolo tutti i suoi compagnetti di scuola dalla prima elementare all’università della terza età… pure per il nome la devono infognare ‘sta creatura metà bambino metà superyacht!
Come sarebbe a dire non andrà a scuola?
“Conosco chi ha molti soldi e so come ragiona. Chi spende 10-20mila euro al giorno quando è in vacanza non vuole cascine, prati e scogliere né alberghetti. E qui non cerca neanche cultura, per quella vanno a Roma o a Firenze. Chiede hotel extralusso, discese a mare, porti per i loro yacht e tanto divertimento sfrenato”.
Ah… voi invece sì che ce l’avete, l’interesse per la cultura indigena… ché andate alla notte della taranta e sapiti ci sontu li greci e bizantini.
Ma procediamo per ordine, accertando le fonti.
Flavio Briatore nasce a Verzuolo, in provincia di Cuneo, da genitori maestri di scuola elementare. Dopo gli altalenanti “anni dell’istruzione” comincia a lavorare come maestro di sci e gestore di ristoranti per poi arrivare ad aprirne uno suo, che in seguito chiude per mancanza di risultati economici soddisfacenti. Dopo aver fatto l’assicuratore collabora con il finanziere e costruttore edile Attilio Dutto, che aveva rilevato la Paramatti Vernici, azienda già di proprietà di Michele Sindona. Il 21 marzo 1979 Dutto viene assassinato a Cuneo con una bomba collegata all’accensione della sua auto: la verità sul caso non verrà mai accertata. In seguito alla scomparsa di Dutto, Briatore si trasferisce a Milano, dove comincia a frequentare l’ambiente della Borsa e fa la conoscenza di Achille Caproni (patron della Caproni Aeroplani), che gli affida la gestione della Compagnia Generale Industriale, la holding del suo gruppo. I risultati ottenuti da Briatore però risultano essere negativi: la Paramatti, finisce in un “crac”. Briatore si presenta per un breve periodo come agente discografico, spesso in compagnia di Iva Zanicchi, per poi dedicarsi a zingari affari connessi a bische clandestine e gioco d’azzardo, che lo portano a essere processato e alla fuga alle Isole Vergini Americane, per poi tornare in Italia dopo un’amnistia. Durante la latitanza, grazie all’amicizia con Luciano Benetton apre alcuni franchising Benetton, facendo poi rapidamente carriera nel gruppo dirigente dell’azienda. Il resto è di conoscenza comune. Team principal in Formula 1, prima con la scuderia Benetton e poi con la scuderia Renault, e proprietario di locali alla moda come il Billionaire a Dubai, Porto Cervo, Montecarlo, Cortina d’Ampezzo, il Twiga a Marina di Pietrasanta e Montecarlo e del resort Lion in the Sun a Malindi, in Kenya.
Briatore Flavio, manager di successo e icona del lusso, sessantasei anni portati tutti nella sua tracotanza addominale e un convegno in terra d’Otranto sulle prospettive e lo sviluppo del turismo sul territorio. Titolo: “Prospettive a mezzogiorno”.
Che già il buon Flavio, notoriamente privo di un bagaglio linguistico che comprendesse qualsiasi possibilità polisemantica, si sarebbe aspettato tavola imbandita e un pranzo luculliano. Senza peraltro sapere chi fosse questo tale.
E vai invece a scoprire che a ‘sto convegno non si mangia e non si vede traccia di fica per ettari. Ma che sistema d’accoglienza è mai questo!?!
Normale che la sua incontinenza verbale lo porti ad esprimere concetti non troppo equilibrati. Ma pur sempre rispettabili. Stante anche il fatto che è la vita che racconta l’essere, molto più di quanto facciano le parole.
Dice che non gli piacciono le masserie, eppure di cagne ne ha avute.
Dice che non gli piacciono i musei, ma nemmeno a voi, e non bluffate.
Dice che non ha interesse per la cultura indigena. Ma in compenso a Cuneo ha frequentato l’Istituto Tecnico per Geometri e, dopo due bocciature in seconda e in terza superiore (pare i professori lo avessero preso contracuernu*), conseguito poi da privatista il diploma di geometra, con una tesina riguardante il progetto di una stalla (la presenza di cavalle è una costante della sua vita, già per ciò stesso molto più bucolica di quanto egli vorrebbe indurre a credere noialtri).
Nessun biasimo, in definitiva. E bando ai sensazionalismi e alla gogna assorbente dei nuovi media. E ad ognuno il suo, soprattutto: “de gustibus non disputandum est”, dicono i latini (O erano li messapi? O li greci e bizantini? Ma cu lli giamaicani?).
Io, per esempio, non sono ricco. Ho una cultura di un dito superiore alla media (terza) solo perché la media rasenta la merda. Ho fatto un tuffo nei cristalli dello Ionio anche oggi, ventuno settembre. Ho visto le foto hackerate di Diletta Leotta. Non ho mai scopato Naomi Campbell né Heidi Klum, e di questo sono sinceramente amareggiato.
E mi fanno cacare gli arricchiti dealfabetizzati, Flavio Briatore, la pizzica e pure i Sud Sound System. Contemporaneamente.
Questioni di Pellè
Intensità pazzesca. E ventricoli coi controcoglioni.
I rigori poi li tira chi ha le palle per farlo. Chi accetta di entrare in quella sottile guerra psicologica dove il limite tra un dio e un pagliaccio è questione di centimetri.
Subentrano altri aspetti, ben oltre quelli tecnici, terribili e meravigliosi: ci sono la paura e il coraggio, la provocazione e l’adrenalina, l’anticamera della gloria e l’essenza della solitudine.
Ed è la massima espressione dello sport perché è tutto fuorché sport soltanto.
E di questo ci ricordiamo. E di questo ci ricorderemo.
Di Bruce Grobbelaar che sbeffeggia mezza Roma all’Olimpico, di Donadoni e Serena, di Baggio nel mondiale a stelle e strisce che colpisce solo le prime dopo averle fatte vedere agli avversari, della traversa di Di Biagio, di Totti che, l’eleganza, mò je faccio er cucchiao (a Van der Sar, che mica è Vincenzo Sicignano), di Grosso che ci fa piangere e gridare calciando contro la Francia esattamente come il suo ultimo rigore precedente, con il Chieti, in serie C2, di Pirlo che prende per culo la regina e tutta l’Inghilterra prima che ci riempissimo la bocca col Brexit, di Pellè che ha sfidato il portiere più forte della terra, cercando di farlo stare fermo per un attimo in più, consapevole della lotta impari col mostro sacro che il caso gli ha fatto trovare di fronte.
Rispetto ai mezzi tecnici a disposizione la nazionale italiana ha fatto un europeo strepitoso. Chiunque non lo riconosca non capisce un cazzo di calcio (e non è detto quindi che non possa far carriera).
Attualmente nessuno dei nostri è un fuoriclasse, ed anche chi viene ritenuto tale lo è in virtù di meccanismi oleati e mandati a memoria nel tempo (il tempo, sì: il tempo serve…).
Più che cercare, al solito, un capro espiatorio, espertoni d’ogni latitudine, valutate perché in Italia non ci sono talenti, e quei pochissimi ce li portano via, e perché tutti i megadirigenti a strisce denigrano la nazionale e decidono per la nazionale.
Ma questo lo penso solo io, eh… E a me piacciono le lacrime delle sconfitte perché raccontano con dignità le cose, senza che una vittoria, sporadica e casuale, copra la puzza stantia di un sistema calcio sconquassato.
Ma in fondo è così… perdi e ti affanni a trovare qualcuno di evidente con cui prendertela… vinci e la merda sparisce. In nazionale come in ogni brandello di spogliatoio. E in fondo in ogni ambito delle nostre piccole vite.
Eppure il trash-talking è sempre esistito, in tutti gli sport. Solo che lo condanniamo indispettiti se non ci porta alla vittoria e ne osanniamo gli interpreti se ci consentono di salire a bordo del carro dei vincitori (ci abbiamo vinto un mondiale così, o quanto declamato da Materazzi alla sorella di Zidane era una citazione di Pablo Neruda?).
L’unico trash-talking intollerabile è quello che invece passa ora sui social, terra della democrazia degli stupidi, che qui possono parlare, offendere, e scriverci pure articoli in cerca di clic. Come me. Più o meno.

Chi trova un amico trova un tesoro
Il primo nuotatore italiano a scendere sotto il minuto nei cento stile libero.
E perché poi uno che partecipa a due olimpiadi avrebbe dovuto far l’attore?
Lui, ricordo, altrimenti s’arrabbiava.
E perché poi, dopo undici titoli italiani, farsi ricordare con un nome d’arte anglofono?
Lui, mi ricordo, lo chiamavano bulldozer.
E perché poi, dopo vasche indefesse, provare a cavalcare altre onde?
Lui, ricordo, stava con gli ippopotami. E, spesso, anche con un tale di nome Mario Girotti.
Scene, quelle con questi due, impresse sopra pellicole consumate. Riferimenti comuni di un tempo comune che solo oggi ci scopriamo ad aver condiviso senza saperlo.
Scene, quelle con questi due, stagliate nell’immaginario collettivo come poche altre.
L’uno di una mole ciclopica, resa ancor più eloquente dai suoi movimenti lenti, dalla sua tranquillità serafica; gli occhi che comparivano appena sotto le fessure lasciate libere dalle pieghe del suo faccione buono.
L’altro, sorriso guascone e bellezza sconvolgente, che, prima di porgere l’altra guancia in una tunica da prete ed arenarsi in una fiction rai, aveva fatto innamorare migliaia di ragazzine e destato il ragionevole dubbio riguardo la propria omosessualità in ogni uomo il cui buongusto rispondesse a qualche canone supposto.
Erano botte da orbi, sedie fracassate sulle spalle, malcapitati figuranti, sempre gli stessi, accartocciati dietro il bancone del bar.
E vestiti da sceriffo o ladri di cavalli, cercatori d’oro o superpiedi quasi piatti in forza ai ranghi della polizia locale, quei cazzotti gentili erano lì almeno un paio di volte al mese, imperdibile appuntamento del palinsesto serale della mia età bambina.
Poi rimasero a fermare talvolta lo zapping isterico dei miei vent’anni, ragione unica della resistenza della quarta rete.
Me li portavo spesso in macchina, in un doppio cd degli Oliver Onions. Per 9,90 euro la mia panda bianca di mezza età una dune buggy rosso fiammante.
Negli anni a venire li ho cercati su youtube nel mezzo delle mie notti poco disposte a concedermi riposo. Chiedevo qualcosa di leggero per stemperare la mia ansia quando più forte scalciava tra le mie lenzuola sudate.
Leggero ad un omone di 125 kg. Gentili a quei cazzotti pesanti. Amico confidente a chi non ho mai conosciuto.
Quelle pellicole, ore di risa sguaiate, e poi pausa di tempi veloci, e poi rifugio cercato da pensieri affastellati, avranno ancor più il retrogusto amaro delle cose che non tornano.
La mia nostalgia, da oggi, è un po’ più triste.
“Non temo la morte. Dalla vita non ne esci vivo, disse qualcuno: siamo tutti destinati a morire. Da cattolico, provo curiosità, piuttosto: la curiosità di sbirciare oltre, come il ragazzino che smonta il giocattolo per vedere come funziona”.
Funziona che, ora sì, anche gli angeli mangiano fagioli.
Ciao, signor Pedersoli Carlo.
Questione di quorum?
Domenica, 17 aprile.
A me no. Non stupisce che Renzi Matteo da Firenze, città d’arte messa un po’ da parte, delegittimi lo strumento referendario, perché la sua stessa modalità elettiva è delegittimante la democrazia. Trovo sia, semplicemente, coerente con la sua nomina.
A me no. Non stupisce che Napolitano Giorgio da Napoli non condanni l’astensionismo, perché il suo stesso operato non ha condannato l’astensione quando si è guardato bene dal rinviare disegni di legge opinabili alle camere (art.74 cost.) perché tanto poi, in caso di nuova approvazione, avrebbe dovuto comunque promulgarli. Perché, garantire, in fondo, perché.
Trovo sia, semplicemente, coerente col suo mandato, doppio. Ed evito apostrofi.
A me non stupisce che un giornalaio rai, tale Greco Gerardo da dove volete voi per non far torto ai concittadini, nell’offrire un pubblico servizio “canonizzato”, dica che, a parte quei pochi che si sta ad occupare lembi di territorio affacciati sul mare, il resto se ne debba sbattere i coglioni di quello che sbatte sulle nostre coste (a noi pugliesi per esempio se crolla la cappella Sistina ce ne sbattiamo la nostra…).
Trovo sia, semplicemente, coerente col ruolo di una televisione di (questo) stato.
A me no. Non stupisce che il referendum abrogativo sia così diseconomicamente abusato, perché rappresenta l’unico strumento di democrazia diretta o indiretta con cui ci si possa ancora convincere di avere un piccolissimo potere decisionale.
Trovo sia, semplicemente, coerente col disegno governativo che ci cancella.
Quello che abbiamo tra le mani è, e resterà, democraticamente, quasi niente. Non sono così sicuro che l’infinitesimale potere concessoci valga la pena esercitarlo. Né so se sbarrando due paroline non se ne trovino presto delle altre per aggirare nuovi ostacoli, debordanti onde frenate da qualche alito contrario. Badando bene di non farcene notizia, ‘sta volta.
Ma quando io sto male, per provare a ritrovare qualche pezzo, me ne vado al mare, da solo, e lui mi fa stare meglio. E questo Sì, piccolo, parziale e un po’ farlocco, credo di doverglielo.

Il 10 m’arzo
Stamattina, armato dei crismi della pazienza che mi si rimprovera da più sponde di non avere, mi dirigo verso lo studio del mio medico per la prescrizione di alcuni esami clinici causa qualche fastidioso contrattempo fisico.
Il meglio delle cose, bisogna prendere. Parcheggio senza fretta, entro, saluto compassato, mi fornisco del bigliettino col numero progressivo.
Consapevole che la solita fila avrebbe reso meriggio il mattino appena lasciato fuori dalla porta a vetri della sala d’aspetto, aspetto.
Non mi faccio abbindolare dai “Chi”-“Oggi”-“Cronaca vera” e dagli altri settimanali rigorosamente luglio 1987 distrattamente abbandonati sul solito tavolino quadrato, che Simona Ventura era ancora poco plastificata, le tette di Sabrina Salerno urlavano boysboysboys e addirittura Donatella Versace poteva parlare senza che le partissero a fionda entrambi gli zigomi.
Preferisco osservare le vecchine bisognose di brandelli di gentilezze e qualche personaggio bizzarro ingordo d’attenzioni.
Il meglio dalle cose, bisogna prendere. E dio solo sa quanto la lunga attesa dal medicodellamutua sia sempre emulsione risolutiva per i grovigli che riempiono i nostri sgabuzzini interiori, manna per i perché che li abitano. Basta dirigere il proprio padiglione auricolare verso il vicino d’attesa più prossimo. Senza che, il padiglione, una volta che le orbite oculari abbiano anch’esse incrociato quelle fameliche del vicino medesimo, abbia più margine di scelta.
Oggi, il paziente al numero 17 è riuscito a metter dentro al medesimo j’accuse:
a) Gli informatori scientifici che non si capisce perché non si dedichi un giorno a loro
b) Il monopolio delle case farmaceutiche che è strano che prescrivano sempre gli stessi medicinali per le stesse cose
c) Il sistema sanitario locale e la mattina che te la giochi
d) I mass media che se ne sentono di ogni e ci siamo pure stancati
e) La vigilessa aggredita al paese perché ce lo suggeriscono le televisioni
f) Il fenomeno del randagismo che comunque can che abbaia a volte morde
g) L’emarginazione dei diversamente abili che invece all’estero scrivono e fanno cose vedendo anche gente
h) il lavoro che non è vero che non c’è
i) Noi italiani che non siamo contenti non con una(!) non con due(!) non con tre(!) case (perché laggente c’hanno tre case!)
l) Gli immigrati che noi ci crediamo vengano da paesi poveri ma non sempre sono così poveri come le favelas
m) I politici che i soldi non si sa dove finiscono ma se li dividono e almeno questo si sa
n) Le cose che però stanno così un po’ ovunque
Trovando, per ciascuno dei compartimenti, magicamente cumulati, la stessa, lapalissiana, matrice risolutiva. Ché tutto è chiaro, al 17.
Io ero il numero 16. Al mio turno ero guarito.
Una giornata da dimenticare
Oggi è il giorno della… ehm… ccheccazz… il giorno… ehm…
Eppure è strano davvero che non me ne ricordi… io, persona dai principi saldi ma mai scontati.
I saldi! Ecco! È la giornata dei saldi: ultimi ribassi.
Mi metto in macchina e vago circospetto alla ricerca del prezzo pazzo (c’è crisi).
Faccio colazione con tè al limone e una brioche vuota (c’è crisi).
Quando ormai hanno portato via anche le commesse in cerca di arrotondare, giro compulsivo per negozi cercando solo megasconti dal 70% in su (c’è crisi).
Trovo e divento un parka verde, tra milioni di parka verde. Ce lo hanno tutti, per parkondicio.
Riprendo la macchina e cambio zona: direzione centro commerciale X. Parcheggi deserti. Che il Sahara a confronto sembra Copacabana (c’è crisi). 10, 100, 1000 parcheggi vuoti. Vuoti.
E che cazzo mi indichi come fare ad entrare in uno dei mille parcheggi vuoti tu, venditore di colore oggi anche parcheggiatore abusivamente subentrato al parcheggiatore abusivo di ruolo, se sono tutti vuoti?
Con abile manovra parcheggio al limite tra spina di pesce e cazzo di cane cercando di accaparrarmi più posti possibile per dare un segnale di presenza contro la crisi (c’è crisi, sì).
Tiro il freno a mano, spengo l’autoradio mentre dentro c’erano Tony Hadley e gli Spandau Ballet (c’è crisi). Esco. Chiudo lo sportello. Aziono il bip dell’antifurto.
Ho il viso smunto, la barba diventata di tre giorni in uno (c’è crisi), il parka verde, un jeans da gggiovane un po’ stracciato dalle parti delle rotule, una borsa a tracolla home made (che praticamente l’ha fatta mia nonna ma così fa più figo), un sigaro mozzato tra le dita lasciate scoperte dai guanti senza dita (c’è crisi).
Il parcheggiatore abusivo che mi aveva aiutato a districarmi nella complicata scelta da eccedenza del parcheggio più opportuno mi aspetta. Io mi invento uno sguardo da duro pronto a cedere i 50 centesimi preparati rigorosamente in pezzi di rame insieme al solito: -To’… occhio alla macchina-
Lui mi guarda. Io lo guardo. Fa un passo verso di me. Io un passo verso di lui. Mi riguarda. Lo riguardo. Scruta da capo a piede la mia mise non troppo lussuosa e, senza pretendere né mano protendere, mi concede esenzione: – Vai, amigo-
Cioè. Vabbe’.
Rimetto gli spicci in tasca. Qualcuno cade senza far più rumore del mio risentimento. Rimetto in macchina le mie natiche parimenti irritate. Piove: non sia mai che stingano, il mio parka verde o ‘sto stronzo.
Ah… ecco… ecco cos’è! Oggi è il giorno della memoria… la shoah… Schindler’s list… l’olocausto… La vita è bella… gli ebrei. Sì, sì… per gli ebrei d’accordo… ma ‘sti cazzo di negri!?!
A Natale siamo tutti più buoni
Natale.
Ci si scambia un pensiero, un regalo, un saluto, un sorriso.
Perché oggi è Natale.
E a Natale siamo tutti più buoni!
Tutti più buoni.
Più buoni.
Più buoni di chi? Di cosa? Di quando?
Questa storia che a Natale siamo tutti più buoni mi fa girare davvero le palle.
Io non sono più buono: sono lo stesso fetente che vive di vanità e mendica attenzioni.
Sono lo stesso presuntuoso che non impara a far star bene la gente.
Sono lo stesso stronzo che non sopporta il bene degli altri se ne va del proprio, e non sopporta il proprio bene se non ne vede il riflesso in quello degli altri.
Sono lo stesso perfezionista a cui non va mai bene niente. O forse nulla.
Il solito rigido idealista che non accetta carezze da mani sporche.
Sono lo stesso che non impara mai dai propri errori.
Sono lo stesso che sprofonda, annaspa, riemerge giusto per gridare rabbia.
Il solito spigoloso umorale sempre uguale a se stesso, pronto ad uccidere coi toni sbagliati i residui sani dei propri intenti.
Sono lo stesso abietto in grado di esecrare, odiare, detestare. A Natale, come tutti gli altri giorni.
E se volete l’augurio è solo questo, e forse no, che vi so fare:
che sappiate vestire di luci e ricordi un albero senza reciderne le radici, di fronte al mare un giorno di giugno, e poi portarci vostro figlio per dirgli che quel che si può fare non è per forza quel che gli altri fanno.
Le parole che non v’ho detto
Lo so… sono un uomo col pudore dei sentimenti, dispensatore sin troppo avaro di quanto abita il mio stomaco, compositore sin troppo attento alla sacertà delle parole:
per me è sempre stato più difficile che per altri profondere quel “grazie” che troppe volte rimase prigioniero trai gorgoglii del mio orgoglio.
Ma oggi, questa mattina che forgia di speranze i nostri uichend, non mi piegherò alle sovrastrutture avverse della mia intelligenza emotiva, non ai freni inibitori della mia timidezza…
E dirò grazie.
Grazie a te, nerboruto operaio dell’acquedotto pugliese venuto a riparare il guasto all’impianto citofonando, sine (che bada, lettore, non è affermazione dialettale bensì negazione avverbiale latina) esitazione alcuna, a casa mia alle ore 6.25, appena 12 primi, 23 secondi, 234 millesimi dopo che finalmente ero caduto esausto, in overdose da melatonina&filtrofiorebonomelli, tra le braccia del mio Morfeo psicotico, che da mesi di lunghe notti, ormai disilluso, gioca con me a poker on line…
E grazie al tuo imberbe amico/discepolo, che, voglioso di rubare il segreto ennesimo del tuo mestiere, mosso da garbo e cortesia fuori dal tempo, mi ha chiesto, col tatto incantevole di un Hippopotamus amphibius della Tanzania, di spostare immantinente le mie automobili da sotto casa di modo che non vi si procurino danni, ed io, con la tachicardia e l’infermità mentale del gentil risveglio, ho indossato il mio trench londinese in perfetto abbinamento con i miei boxer da notte, ed incurante dello strazio oculare dei passanti, impavido, ho schiacciato le babbucce di Homer Simpson contro la frizione, per portare in salvo presso isolati altri da qui le fuoriserie in via d’estinzione di casa Fiore…
E grazie, grazie al tuo, al vostro, al nostro, martello pneumatico, che d’allora lavora indefesso esattamente sotto la finestra della mia stanza da letto, invasa dai 5964318933 decibel da ivi metal heavy concentratisi (confusioni anglofone indotte da follie bioritmiche) ad accarezzare il mio riconoscente padiglione auricolare…
Grazie, a voi ed al vostro gioioso vociare fanciullino, al vostro eloquio discreto, educato ai canoni di una dizione perfetta, che al confronto Lugggialluca di Frigole* sembrerebbe originario d’oltralpe, financo.
Musica che, come “amor ch’al cor gentil ratto s’apprende”.
Musica che, “come vedi, ancor non m’abbandona”.
A voi,
eaccibbastramuerti®**,
Grazie.
Infinitamente.
*intenso protagonista del remake di una nota pellicola di marchio spielberghiano
**nello slang locale un modo per cumulare ai propri i meriti dei propri avi