Palpiti daltonici. Pensieri asfittici. Fremiti senza meriti. Latrati afoni nei finestrini appannati. Faune conniventi, vertigini di cieli toccati, rabbia e istinti, e fughe, e ritorni, e morsi e grida e porte sbattute. Ogni volta per l’ultima volta, fino all’ultima volta.
Nota: Questi versi non sono dedicati a chi li ha ispirati
Sono superficie. Penso all’ignavia che spreca gl’istanti senza aver dato parto che sia bellezza. Penso alla sola omissione peggiore: non averla fermata. Sopra un foglio di carta, nei pixel di una macchina fotografica, trai tasti di un pianoforte, sulla pellicola di un film, sui colori di una tela. Non incisa indelebile su cuore destinato al macero, né sulle retine che cenere saranno sotto palpebre di cenere. Voglio rimanere parola, faccia, nota, scena, chiaroscuro. Vivo cercando il modo di sopravvivermi. Sbraccio confusamente perché non m’affoghi, trascinandomi al profondo, l’idea disumana della transitorietà. Resto superficie.
C’era un uomo assai bislacco che lontano dalla gente si portava sempre appresso un cappotto ed un difetto che quel medico ostinato volle definir balbuzie Era un bravo ballerino nonché abile cantante ma in virtù del suo problema lui poteva sol cantare ba-ba-baciami piccina sulla bo-bo-bocca piccolina
Un bel giorno lo incontrai Era sotto il suo cappello a me par di ricordare camminando ‘sì distratto che non lo potei fermar Ma mentr’ei s’allontanava come ladro di momenti gli scattai rapida foto
Qual stupore in digitale mi lasciò sgranati gl’occhi… tutt’intorno a quel figuro non v’era nulla di intero: solo curve e linee rotte
vetri infranti e sole a spicchi come quadri futuristi.
Forse vinta al mio tremore mi s’avvicinò una donna che mostrando di sapere di quell’uomo così strano piano fece alle mie orecchie disvelandone l’arcano: -Si sentiva molto solo perché non era compreso Non potendo sistemare quell’ingorgo di parole fece a pezzi il suo orizzonte per poterlo raccontare.
Ti voglio bene. Disse. Ma mai contò quanto potesse far male la più bizzarra delle imposizioni. Sopra un disco che gira Cinema Paradiso poggia ogni giorno due lacrime che non ha mai saputo raccontare. Piange soltanto lì. Su quei violini. Beve se piove. Parla solo ai rospi e ai bambini. Fugge sui tetti ad abbracciasi alle nuvole. Beve se piove. E non ricorda ciò che scrive. Cerca curve negli angoli. Vive danzando sui mali del mondo. E ripensa quello strano stato tra il suo stomaco e Bahia.
Ebbra l’attesa si scioglie in fragranze di vaniglia e tè bianco, occhi impazienti assaggiano le meraviglie dei propri possessi; osmosi di sensi tremanti.
In perfette aderenze si mescolano ventri concave e voglie convesse, lente carezze scorrono armonie musicali di corpi flessuosi; vicinanze ermetiche.
Denti stridenti strappano gli ultimi lembi di stoffa gelosi, morsi violenti straziano labbra irrorate di purpurea rosa; dondolii tellurici.
Mani ingorde si scaldano al crepitio dei piccoli seni golosi, docili piedi si sfiorano complici cercandosi in angoli nuovi; brandelli di lussuria.
Il brivido di un fiato nel sudore chiede strada lungo la schiena, bocche ansimanti trattengono pudiche sospiri clandestini; dissonanze retroattive di ipertrofici tarli.
Rivoli di piacere umidi attraversano i sinuosi sussulti di cosce tornite, sazia la pelle si posa sfiorandosi ancora; voluttà sconfitte.