Come un bambino stanco

Vorrei dormire come un bambino stanco
nella veranda della mia casa al mare,
affacciata sul rumore di cicale e facili speranze
I miei sogni confusi al giorno dopo
La pelle ancora sapida dell’ultima ora di giochi d’acqua
sopra una sdraio di tela chiara
Mia madre mi poggia un vecchio asciugamano per tenere a bada l’umido della sera
Il mio piede scalzo scivola via, come in un tentativo di finta ribellione

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La mia sulla neve

Sapete, ci sono cose che cadenzano le vite più di altre: è una questione di frequenza, di densità. Ci sono cose che si ripetono con una tale costanza che non sapremo mai quando è stata la prima e difficilmente avremo piena percezione di quando sarà l’ultima. Ce ne sono altre che invece accadono con una frequenza talmente esigua che ci permette d’avvertirne immediatamente la densità.
La densità della coltre bianca che in questi giorni ha avvolto alberi, segnali stradali e pettirossi intirizziti, coperto tetti e auto, scoperto ricordi.
L’ultima volta che il Salento ha visto così tanta neve era il 1987. Io avevo sette anni.
Mi ricordo un piumino verde con degli ombrellini disegnati, un cancello aperto sopra un esile vicolo bianco che mi pareva la discesa libera di Kitzbuhel, un pupazzo di neve col naso di carota e gli occhi di bottoni.
In realtà non so bene se sia davvero un ricordo così chiaro o se mi sia stato a più riprese rinverdito da qualche foto sbiadita, di quelle che si conservavano infilandole nelle pellicole 9×13 di piccoli raccoglitori. Foto senza appello né margine d’errore: l’istante fermato non si poteva modificare, ritoccare, inquinare. E il rullino era un delicato testimone da passare al fotografo di fiducia, unico artefice della postproduzione.
Sta di fatto che da quel 1987, da quelle foto dai colori rosastri che filtri moderni si ostinano voler richiamare, sono trascorsi quasi trent’anni, che quel piumino verde sarà stato affidato a qualche raccolta di indumenti usati che saltuariamente usiamo per lavarci le coscienze, che quel piccolo vicolo è ora solo un piccolo vicolo, che quel pupazzo di neve si sarà stancamente ripiegato su sé stesso cambiando il proprio stato di materia, e che molte delle persone che c’erano non ci sono più.
La densità. Dopo trent’anni. E chissà tra quanti la prossima volta.
Così ho preso a camminare, osservatore bulimico dei contorni ripassati e dei perimetri ingentiliti dal biancore. A percorrere avidamente i tratti che la neve aveva segnato, a girare per gli uliveti, per i vigneti scheletriti, per le coste sorprese. A vedere i posti della mia vita come mai li avevo visti e come, chissà, quando e se mai, così, rivedrò.
Ho fatto prima metri ciondolante, poi chilometri privo di catene, che meglio sarebbe stato il solo senso metaforico.
Ho guardato panorami di zucchero filato e mi sono fermato sopra la meraviglia delle piccole cose.
Mi sono domandato perché, quando cade la tristezza in fondo al cuore, come la neve non faccia rumore. Come avevano già fatto, mi pare.
Bella, tutta quella malinconia bianca.
Ho voluto tuffarmi e sporcare la coltre vergine, perché, a volte, tocca sporcare le cose per poterle imparare.
Sono stato verso spiagge lattee già dure e calpestate, e in posti ancora morbidi, dove solo i fiocchi avevano preceduto le mie scarpe.
Ho inzuppato calzini e asciugato il mio cane da slitta senza slitta. Ho condiviso gesti maldestri con altri pezzi di vita semoventi.
Ho sguinzagliato emozioni inflazionate ed ho saputo goderne. Perché spesso le emozioni non hanno alcuna fantasia, e riescono nel miracolo dell’assurdo di essere intime e popolari allo stesso tempo.
Ho voluto prendermele tutte, queste ore gelide. E non ho avuto freddo.
Ho rubato immagini che potessero ricordarmela, la leggerezza della neve.
Scatti in digitale da guardare in quei momenti in cui sono più pesanti, i miei pensieri.
E va bene, d’accordo, mi dispiace per i clochard morti -i barboni si chiamano clochard, quando muoiono-, e mi dispiace per l’agricoltura in ginocchio. Ma mi dispiace anche per ogni altra sensibilità sopita. Per ogni ricordo abbandonato.
Ché tra un po’ diventerà tutto ghiaccio sporco, perché tocca sporcare le cose, per poter proseguire.
Ed “è capace”, sapete, che carichi anch’io qualche foto con la neve. Ed ecco qual è, alla fine, il motivo malcelato di queste pretestuose profondità in forma scritta: mi siano al riparo le gonadi dal vostro tedio, cari anticonformisti surgelati, ché a volte, per scoprir talune verità cilindriche, non c’è nemmeno bisogno d’aspettar che si sciolga…

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Ruberie opportune

Rubate.
Regali maldestri,
canzoni agli ubriachi,
notizie a ritagli di vecchi giornali.
Rubate.
Brividi,
espressioni,
mode ai mutamenti.
Rubate colori,
immagini senza cornici,
e al buio immaginazione, rubate.
Rubate passi e pensieri,
perimetri vergini,
corse ai cortili della scuola.
Rubate.
Inchiostro incerto a quaderni ingialliti.
Rubate abbracci alle solitudini.
Rubate.
Sospetti ai ricordi.
Dubbi alle perfezioni.
Dignità ai fallimenti.
Rubate.
Conoscenza.
Rubate momenti,
carezze,
atti di gioia disorganizzati.
Rubate.
Gratitudine,
cieli trascorsi,
schiaffi all’aria che vi corre contro.
Rubate.
Frutti sommersi,
ossigeno all’acqua,
parole ai pesci,
profumi ai caffè.
Rubate.
Al giorno un tramonto,
orizzonti limpidi al freddo di gennaio,
leggerezza ai fiocchi di neve.
Rubate.
Disobbedienze,
lezioni dai bimbi,
tecniche pazienti a mani di nonna.
Rubate.
Felicità alle superfici,
attimi alla fretta,
sogni alla gloria.
Rubate.
Pensieri sporchi a donne mature,
frutti acerbi ai rami più bassi.
Rubate.
Sguardi fugaci all’ora di punta.
Rubate.
Lingue ai baci,
secondi alla morte,
ai film, finali sbagliati.
Rubate.
Albe ai viaggi,
pause ai percorsi,
prime volte una volta ancora.
Rubate.
Sale alla marea che scende,
brevi superfici levigate agli scogli.
Rubate.
Profili a finestre vuote,
profumi d’erba di case abbandonate.
Rubate.
Spazi per poggiarsi sopra gl’incavi dei colli,
Rubate.
Fremiti a natiche distratte,
segreti alla pelle nuda,
leccate ai grandi seni,
amore a corpi perduti.
Rubate.
Ciò che potete, rubate.
Ché nulla, alla fine, sarà di nessuno.

Senuttescerrimai delleradicicatieni

E comunque, non per togliere credito all’ampio dibattito geopolitico generatosi ma, questo, è uno che, suo figlio, l’ha chiamato Nathan Falco.
Che non basta quello che diranno alla madre del piccolo tutti i suoi compagnetti di scuola dalla prima elementare all’università della terza età… pure per il nome la devono infognare ‘sta creatura metà bambino metà superyacht!
Come sarebbe a dire non andrà a scuola?

“Conosco chi ha molti soldi e so come ragiona. Chi spende 10-20mila euro al giorno quando è in vacanza non vuole cascine, prati e scogliere né alberghetti. E qui non cerca neanche cultura, per quella vanno a Roma o a Firenze. Chiede hotel extralusso, discese a mare, porti per i loro yacht e tanto divertimento sfrenato”.

Ah… voi invece sì che ce l’avete, l’interesse per la cultura indigena… ché andate alla notte della taranta e sapiti ci sontu li greci e bizantini.

Ma procediamo per ordine, accertando le fonti.

Flavio Briatore nasce a Verzuolo, in provincia di Cuneo, da genitori maestri di scuola elementare. Dopo gli altalenanti “anni dell’istruzione” comincia a lavorare come maestro di sci e gestore di ristoranti per poi arrivare ad aprirne uno suo, che in seguito chiude per mancanza di risultati economici soddisfacenti. Dopo aver fatto l’assicuratore collabora con il finanziere e costruttore edile Attilio Dutto, che aveva rilevato la Paramatti Vernici, azienda già di proprietà di Michele Sindona. Il 21 marzo 1979 Dutto viene assassinato a Cuneo con una bomba collegata all’accensione della sua auto: la verità sul caso non verrà mai accertata. In seguito alla scomparsa di Dutto, Briatore si trasferisce a Milano, dove comincia a frequentare l’ambiente della Borsa e fa la conoscenza di Achille Caproni (patron della Caproni Aeroplani), che gli affida la gestione della Compagnia Generale Industriale, la holding del suo gruppo. I risultati ottenuti da Briatore però risultano essere negativi: la Paramatti, finisce in un “crac”. Briatore si presenta per un breve periodo come agente discografico, spesso in compagnia di Iva Zanicchi, per poi dedicarsi a zingari affari connessi a bische clandestine e gioco d’azzardo, che lo portano a essere processato e alla fuga alle Isole Vergini Americane, per poi tornare in Italia dopo un’amnistia. Durante la latitanza, grazie all’amicizia con Luciano Benetton apre alcuni franchising Benetton, facendo poi rapidamente carriera nel gruppo dirigente dell’azienda. Il resto è di conoscenza comune. Team principal in Formula 1, prima con la scuderia Benetton e poi con la scuderia Renault, e proprietario di locali alla moda come il Billionaire a Dubai, Porto Cervo, Montecarlo, Cortina d’Ampezzo, il Twiga a Marina di Pietrasanta e Montecarlo e del resort Lion in the Sun a Malindi, in Kenya.

Briatore Flavio, manager di successo e icona del lusso, sessantasei anni portati tutti nella sua tracotanza addominale e un convegno in terra d’Otranto sulle prospettive e lo sviluppo del turismo sul territorio. Titolo: “Prospettive a mezzogiorno”.

Che già il buon Flavio, notoriamente privo di un bagaglio linguistico che comprendesse qualsiasi possibilità polisemantica, si sarebbe aspettato tavola imbandita e un pranzo luculliano. Senza peraltro sapere chi fosse questo tale.
E vai invece a scoprire che a ‘sto convegno non si mangia e non si vede traccia di fica per ettari. Ma che sistema d’accoglienza è mai questo!?!
Normale che la sua incontinenza verbale lo porti ad esprimere concetti non troppo equilibrati. Ma pur sempre rispettabili. Stante anche il fatto che è la vita che racconta l’essere, molto più di quanto facciano le parole.
Dice che non gli piacciono le masserie, eppure di cagne ne ha avute.
Dice che non gli piacciono i musei, ma nemmeno a voi, e non bluffate.
Dice che non ha interesse per la cultura indigena. Ma in compenso a Cuneo ha frequentato l’Istituto Tecnico per Geometri e, dopo due bocciature in seconda e in terza superiore (pare i professori lo avessero preso contracuernu*), conseguito poi da privatista il diploma di geometra, con una tesina riguardante il progetto di una stalla (la presenza di cavalle è una costante della sua vita, già per ciò stesso molto più bucolica di quanto egli vorrebbe indurre a credere noialtri).

Nessun biasimo, in definitiva. E bando ai sensazionalismi e alla gogna assorbente dei nuovi media. E ad ognuno il suo, soprattutto: “de gustibus non disputandum est”, dicono i latini (O erano li messapi? O li greci e bizantini? Ma cu lli giamaicani?).
Io, per esempio, non sono ricco. Ho una cultura di un dito superiore alla media (terza) solo perché la media rasenta la merda. Ho fatto un tuffo nei cristalli dello Ionio anche oggi, ventuno settembre. Ho visto le foto hackerate di Diletta Leotta. Non ho mai scopato Naomi Campbell né Heidi Klum, e di questo sono sinceramente amareggiato.
E mi fanno cacare gli arricchiti dealfabetizzati, Flavio Briatore, la pizzica e pure i Sud Sound System. Contemporaneamente.

 


2 Settembre

E passano le estati
ad aspettar gl’inverni
e passano gl’inverni
ad aspettar le estati,
sull’uscio bestemmiando
l’afa e la ragione,
il vento e l’illusione.
Rotola una foglia secca
spinta dall’ultima porta sbattuta,
ché si deve andare.
Camminavo oggi,
di settembre,
lungo la riva di non so cosa;
mi pare più lento
il respiro del mondo.


Apologia della timidezza

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 


Questioni di Pellè

Intensità pazzesca. E ventricoli coi controcoglioni.
I rigori poi li tira chi ha le palle per farlo. Chi accetta di entrare in quella sottile guerra psicologica dove il limite tra un dio e un pagliaccio è questione di centimetri.
Subentrano altri aspetti, ben oltre quelli tecnici, terribili e meravigliosi: ci sono la paura e il coraggio, la provocazione e l’adrenalina, l’anticamera della gloria e l’essenza della solitudine.
Ed è la massima espressione dello sport perché è tutto fuorché sport soltanto.
E di questo ci ricordiamo. E di questo ci ricorderemo.
Di Bruce Grobbelaar che sbeffeggia mezza Roma all’Olimpico, di Donadoni e Serena, di Baggio nel mondiale a stelle e strisce che colpisce solo le prime dopo averle fatte vedere agli avversari, della traversa di Di Biagio, di Totti che, l’eleganza, mò je faccio er cucchiao (a Van der Sar, che mica è Vincenzo Sicignano), di Grosso che ci fa piangere e gridare calciando contro la Francia esattamente come il suo ultimo rigore precedente, con il Chieti, in serie C2, di Pirlo che prende per culo la regina e tutta l’Inghilterra prima che ci riempissimo la bocca col Brexit, di Pellè che ha sfidato il portiere più forte della terra, cercando di farlo stare fermo per un attimo in più, consapevole della lotta impari col mostro sacro che il caso gli ha fatto trovare di fronte.
Rispetto ai mezzi tecnici a disposizione la nazionale italiana ha fatto un europeo strepitoso. Chiunque non lo riconosca non capisce un cazzo di calcio (e non è detto quindi che non possa far carriera).
Attualmente nessuno dei nostri è un fuoriclasse, ed anche chi viene ritenuto tale lo è in virtù di meccanismi oleati e mandati a memoria nel tempo (il tempo, sì: il tempo serve…).
Più che cercare, al solito, un capro espiatorio, espertoni d’ogni latitudine, valutate perché in Italia non ci sono talenti, e quei pochissimi ce li portano via, e perché tutti i megadirigenti a strisce denigrano la nazionale e decidono per la nazionale.
Ma questo lo penso solo io, eh… E a me piacciono le lacrime delle sconfitte perché raccontano con dignità le cose, senza che una vittoria, sporadica e casuale, copra la puzza stantia di un sistema calcio sconquassato.
Ma in fondo è così… perdi e ti affanni a trovare qualcuno di evidente con cui prendertela… vinci e la merda sparisce. In nazionale come in ogni brandello di spogliatoio. E in fondo in ogni ambito delle nostre piccole vite.
Eppure il trash-talking è sempre esistito, in tutti gli sport. Solo che lo condanniamo indispettiti se non ci porta alla vittoria e ne osanniamo gli interpreti se ci consentono di salire a bordo del carro dei vincitori (ci abbiamo vinto un mondiale così, o quanto declamato da Materazzi alla sorella di Zidane era una citazione di Pablo Neruda?).
L’unico trash-talking intollerabile è quello che invece passa ora sui social, terra della democrazia degli stupidi, che qui possono parlare, offendere, e scriverci pure articoli in cerca di clic. Come me. Più o meno.

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Chi trova un amico trova un tesoro

Il primo nuotatore italiano a scendere sotto il minuto nei cento stile libero.
E perché poi uno che partecipa a due olimpiadi avrebbe dovuto far l’attore?
Lui, ricordo, altrimenti s’arrabbiava.
E perché poi, dopo undici titoli italiani, farsi ricordare con un nome d’arte anglofono?
Lui, mi ricordo, lo chiamavano bulldozer.
E perché poi, dopo vasche indefesse, provare a cavalcare altre onde?
Lui, ricordo, stava con gli ippopotami. E, spesso, anche con un tale di nome Mario Girotti.
Scene, quelle con questi due, impresse sopra pellicole consumate. Riferimenti comuni di un tempo comune che solo oggi ci scopriamo ad aver condiviso senza saperlo.
Scene, quelle con questi due, stagliate nell’immaginario collettivo come poche altre.
L’uno di una mole ciclopica, resa ancor più eloquente dai suoi movimenti lenti, dalla sua tranquillità serafica; gli occhi che comparivano appena sotto le fessure lasciate libere dalle pieghe del suo faccione buono.
L’altro, sorriso guascone e bellezza sconvolgente, che, prima di porgere l’altra guancia in una tunica da prete ed arenarsi in una fiction rai, aveva fatto innamorare migliaia di ragazzine e destato il ragionevole dubbio riguardo la propria omosessualità in ogni uomo il cui buongusto rispondesse a qualche canone supposto.
Erano botte da orbi, sedie fracassate sulle spalle, malcapitati figuranti, sempre gli stessi, accartocciati dietro il bancone del bar.
E vestiti da sceriffo o ladri di cavalli, cercatori d’oro o superpiedi quasi piatti in forza ai ranghi della polizia locale, quei cazzotti gentili erano lì almeno un paio di volte al mese, imperdibile appuntamento del palinsesto serale della mia età bambina.
Poi rimasero a fermare talvolta lo zapping isterico dei miei vent’anni, ragione unica della resistenza della quarta rete.
Me li portavo spesso in macchina, in un doppio cd degli Oliver Onions. Per 9,90 euro la mia panda bianca di mezza età una dune buggy rosso fiammante.
Negli anni a venire li ho cercati su youtube nel mezzo delle mie notti poco disposte a concedermi riposo. Chiedevo qualcosa di leggero per stemperare la mia ansia quando più forte scalciava tra le mie lenzuola sudate.
Leggero ad un omone di 125 kg. Gentili a quei cazzotti pesanti. Amico confidente a chi non ho mai conosciuto.
Quelle pellicole, ore di risa sguaiate, e poi pausa di tempi veloci, e poi rifugio cercato da pensieri affastellati, avranno ancor più il retrogusto amaro delle cose che non tornano.
La mia nostalgia, da oggi, è un po’ più triste.
“Non temo la morte. Dalla vita non ne esci vivo, disse qualcuno: siamo tutti destinati a morire. Da cattolico, provo curiosità, piuttosto: la curiosità di sbirciare oltre, come il ragazzino che smonta il giocattolo per vedere come funziona”.
Funziona che, ora sì, anche gli angeli mangiano fagioli.
Ciao, signor Pedersoli Carlo.

https://www.youtube.com/watch?v=1BfzLqQjFcQ


Nella cesta dei giochi dimenticati

In questo gioco non conta chi esiste e chi no
In questo gioco non serve aspettare
In questo gioco non ci sono abitudini, nemmeno sperare
In questo gioco ci sono puntini che si possono unire
In questo gioco non c’è una cosa da fare
In questo gioco non ci sono misure,
così nulla resta a metà
In questo gioco fa fresco ed è la mattina di un giorno senza ore
In questo gioco non esiste la fame né la sazietà
In questo gioco ci sono gelati al caffè che si sciolgono senza appiccicare
In questo gioco i soffitti ti ascoltano se hai una storia da raccontare
e scrivendo fumetti dentro i bordi delle nuvole, i più alti, puoi farli parlare
In questo gioco puoi correre senza stancarti,
o far finta, se vuoi cadere sull’erba del prato appena incontrato
In questo gioco puoi sollevare un elefante gigante con una mano soltanto
In questo gioco non c’è niente di grave o leggero
Non c’è un sopra né un sotto, nemmeno
E i punti cardinali spesso non sanno dove andare
In questo gioco puoi toccare le tette di chi ti piace
Puoi suonare i campanelli senza scappare
In questo gioco non grida nessuno, perché non c’è nessuno da svegliare
ché il sonno non serve perché non serve sognare
In questo gioco “bene” è quello che mi vuole il mio cane,
quando torno e ogni volta mi viene a cercare
In questo gioco sei un cantante, un astronauta o anche Bud Spencer, a esagerare
un pianoforte coi tasti a colori o il capotreno di treni inventati che non riesci a fermare
In questo gioco c’è un pazzo che l’infinito vuole contare
e persone sane che gli prestano dita per non perdere il conto parziale
In questo gioco si mettono in fila mille parole,
che se escludi promesse e poesie
quello che vuoi puoi farcele diventare
In questo gioco non c’è il bene e il male
In questo gioco ti prendo la mano e ti porto con me
In questo gioco non tremo, se guardo negli occhi le paure che ho
In questo gioco ti porto con me
In questo gioco non devo pensare
In questo gioco basta nuotare
In questo gioco si può respirare tra le mille specie del mare
In questo gioco ci si uccide ma non si muore
In questo gioco anche col la morte si può farci l’amore
In questo gioco nessuno dice che poi tutto finisce
In questo gioco non c’è futuro né passato
In questo gioco ti prendo la mano
In questo gioco, che l’ho dimenticato

https://www.youtube.com/watch?v=uSGeLtB9e38


Questione di quorum?

Domenica, 17 aprile.
A me no. Non stupisce che Renzi Matteo da Firenze, città d’arte messa un po’ da parte, delegittimi lo strumento referendario, perché la sua stessa modalità elettiva è delegittimante la democrazia. Trovo sia, semplicemente, coerente con la sua nomina.
A me no. Non stupisce che Napolitano Giorgio da Napoli non condanni l’astensionismo, perché il suo stesso operato non ha condannato l’astensione quando si è guardato bene dal rinviare disegni di legge opinabili alle camere (art.74 cost.) perché tanto poi, in caso di nuova approvazione, avrebbe dovuto comunque promulgarli. Perché, garantire, in fondo, perché.
Trovo sia, semplicemente, coerente col suo mandato, doppio. Ed evito apostrofi.
A me non stupisce che un giornalaio rai, tale Greco Gerardo da dove volete voi per non far torto ai concittadini, nell’offrire un pubblico servizio “canonizzato”, dica che, a parte quei pochi che si sta ad occupare lembi di territorio affacciati sul mare, il resto se ne debba sbattere i coglioni di quello che sbatte sulle nostre coste (a noi pugliesi per esempio se crolla la cappella Sistina ce ne sbattiamo la nostra…).
Trovo sia, semplicemente, coerente col ruolo di una televisione di (questo) stato.
A me no. Non stupisce che il referendum abrogativo sia così diseconomicamente abusato, perché rappresenta l’unico strumento di democrazia diretta o indiretta con cui ci si possa ancora convincere di avere un piccolissimo potere decisionale.
Trovo sia, semplicemente, coerente col disegno governativo che ci cancella.
Quello che abbiamo tra le mani è, e resterà, democraticamente, quasi niente. Non sono così sicuro che l’infinitesimale potere concessoci valga la pena esercitarlo. Né so se sbarrando due paroline non se ne trovino presto delle altre per aggirare nuovi ostacoli, debordanti onde frenate da qualche alito contrario. Badando bene di non farcene notizia, ‘sta volta.
Ma quando io sto male, per provare a ritrovare qualche pezzo, me ne vado al mare, da solo, e lui mi fa stare meglio. E questo Sì, piccolo, parziale e un po’ farlocco, credo di doverglielo.

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