Migliaia di capocchie di spilli illuminate da qualche fascio di luce ai piedi di un palco. Altre migliaia intorno. O sui gradoni della chiesa di San Petronio a mescolare profano al sacro nel dubbio che distinzione valga la pena.
Fa nulla che non siano accendini quelle fiammelle di pixel che ci si muovono sopra.
Fa nulla che sgridi l’attesa per indovinare il prossimo pezzo prima degli altri ché tanto tutti lo sanno prima del primo tasto di pianoforte.
Fa nulla che da domani… ci penseremo domani.
Questa notte è volere bene e chiedere scusa disordinatamente.
Era stato un giorno strano, a 7 anni e un giorno esatti da un altro giorno strano.
L’ultimo treno senza passare per la stazione. O forse sì.
Questo mio enorme cuore tra le stelle. O quel che ne rimane, dei miei atri e di quegli astri.
Restiamo ancora un po’, senza dire parole.
Alle 00.20 c’erano 32 gradi. Ma ci aveva già pensato la donna cannone sotto il suo panama bianco, a scioglierci.
Restiamo ancora un po’: dalle porte della notte il giorno si bloccherà.
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E senza fame e senza sete
Sala scommesse
Parcheggio agile occupando un po’ più della porzione di carreggiata a disposizione. Assicuro la mia posizione sul bordo del codice stradale tirando su il freno a mano con fierezza mascolina. Scivolo su gagliardo. Mi chiudo lo sportello alle spalle con veemenza. Espiro sfiatando prepotenza. Spingo dove dice tirare. Correggo il tiro contrariato ed entro in uno dei peggiori centri scommesse di Caracas (vabbe’… non proprio Caracas). Gioco il mio pronostico.
In bella mostra accanto alla tv al plasma tre fogli A4 nastrati al muro descrivono fermamente i divieti del caso: divieto d’accesso ai non soci, divieto di fumo, divieto di giocata per i minorenni; elusi nell’ordine in 4 primi e 37. Di fronte uno sparuto gruppo occhi e orecchi quasi dentro lo schermo mentre la partita entra nel vivo. I commenti di matrice rigorosamente tecnico-tattica si sprecano. La tensione è palpabile. La tenzone probabile.
Dalla porticina secondaria della saletta slot, il rumore tintinnante delle monetine che cadono giù da un videopoker. Il giocatore doveva essere stato molto fortunato, e la vincita corposa, se il tintinnio si protraeva per più tempo rompendo l’idillio dell’erudita platea, che iniziava a rumoreggiava infastidita. Dall’ultima fila, all’improvviso, si leva la magia: “Llenne la suoneria!!!”.
Adoro.
Le ferrovie del signore sono infinite
Lecce-Milano-Bologna-Padova-Bologna-Lecce. In 7 giorni.
Ho capito che le ferrovie dello Stato usano l’aria condizionata come arma di distruzione di massa. E condivido.
Gli agenti atmosferici hanno saputo: ho preso litri d’afa e poi litri d’acqua.
Ho visto quartieri interi a forma di cinesi. Che vendevano tutto, anche di notte. E italiani che compravano tutto in grosse buste, anche di notte. E altri italiani che compravano poi, di giorno, da negozi di lusso made in italy che avevano comprato la notte prima dai cinesi.
Ho mangiato sushi.
Ho comprato una maglia che mi fa figo come quando lo ero e un puzzle completamente bianco.
Ho trovato per strada una signora di centoventi chili in carrozzina che voleva essere riportata a casa dove erano rimasti il marito e la badante.
Ho visto migliaia di avvocati -qualcuno meno- in pausa pranzo al Duomo con al collo nodi così grandi e stretti che potevano solo ingerire frullati.
Ho fatto finta di dormire in treno per sfuggire alla logorrea di una nonnina troppo in forma per me. Ed al dramma sussurrato di una donna più giovane e triste ché il figlio, poverino, dopo aver studiato filosofia era finito a fare il bancario a stipendio fisso al posto del padre.
Ho visto il Bologna tornare in serie A.
Ho visto reggiseni in disuso sotto canotte di cotone leggero. Che va bene così. E le nudità del Nettuno non cedere, stoiche, al proprio riposo.
Ho riconosciuto un mendicante barbuto sul quale questi anni hanno avuto molta meno incidenza che su di me.
-Ti trovo bene-, gli ho detto, e lui mi ha fatto cenno di aspettare un attimo che era al cellulare.
Sono passato dall’università per vedere quanti professori fossero morti, intanto. Non abbastanza.
Ho visto una donna in overdose morire a due metri dall’aperitivo.
Ho mangiato in una libreria col pianoforte.
Ho bevuto birra normale. Si chiamava così.
Ho visto la mostra di Escher, quello che disegna un sacco di scale che non si sa dove portino ed un sacco d’altre cose che non si sa dove vadano. Non è vero: sono un coglione perché non l’ho vista. Ma c’era.
Ho ascoltato un cantautore sparso in piazza che pare conosca la forma del mondo. E secondo me ha ragione lui.
Ho rivisto “Forrest Gump”, e mi fa piangere ancora grossi magoni senza lacrime pronti a sciogliersi dovessi parlare.
Ho disegnato coi pastelli a cera con un mio amico di un anno e mezzo, che non ci disegnavo da mille e mille anni. E sono più bravo io di lui!
Ho incrociato un poeta, vero dice lui ed io sarei anche d’accordo, sul binario quattordici.
C’è qualcosa di più banale di un poeta che aspetta un treno?
Mi ha lasciato il suo numero dietro lo scontrino di una farmacia. Aveva appena comprato il malox.
C’è qualcosa di più banale di un poeta che aspetta un treno: un poeta che aspetta un treno col malox in borsa.
Ho trascinato bagagli, e riposto pensieri da viaggio nei calzini sudati.
Ho occupato il mio posto stampato su carta, solo per un po’, ché io non so mai, davvero, qual è il posto che ho.
Erri non mi presento, sallo
Il mio ego impegnativo m’impedisce di voler somigliare a qualcuno. La mia vanità, di ammetterlo. In ogni cosa tra le cose. Ieri l’altro a Lecce c’era Erri De Luca. Che io ce l’avevo messo già dentro una cosa che ho scritto e lui no, non ha ricambiato la cortesia. Quando oltre alla fronte spaziosa avevo tutti i capelli, provavo a pettinarli come Luke Perry, o a rubare qualche mise di scena a qualcuno a caso dei Take That. Senza mai, ovviamente, avere poster nella stanza. Quando giocavo a calcio provavo ad imitare i dribbling di Roberto Baggio prima e i movimenti di Fernando Redondo e Zinedine Zidane poi. Senza mai, certo, comprare una loro maglietta. Quando ho cominciato a fare calcio dalla panchina ho guardato con attenzione al credo tattico di Guardiola, Zeman, oggi Maurizio Sarri. Senza mai ammettere di voler somigliare loro. Quando scrivo ho la stessa vanità: essere cosa nuova. Ieri l’altro a Lecce c’era Erri De Luca. Presentava un libro in Feltrinelli. Ci sono andato. Per fare outing (lo so che non si dice così, ma altrimenti voi non capite), cazzo! E dirglielo, senza vergogne, che l’uso musicale delle parole, il suo giocare leggero con l’etimo, spiegando senza rovinare, sviscerando senza violentare è per me un riferimento, come, nel tempo, Zeman e Guardiola, Zidane e Baggio, quel mucchio di cantanti e attori anni ’90, e come una stringatissima selezione di altri scrittori. E che io no: non voglio somigliare, e che sì: voglio essere cosa nuova, ma che se in questo un lettore distratto ritrovasse un po’ del suo, bè… sarei… insomma… non mi offenderei. C’era molta gente. C’era aria consumata. C’erano storie mai lette. C’erano storie illeggibili. C’erano domande ruffiane. C’erano risposte delicate. Ho ascoltato. Non ho detto. Non gli ho detto. Ho preso una birra con una fettina di limone. Poi sono sfilato via, un po’ dopo di lui, molto dopo gli altri.
Il coccodrillo come fa?
Tre Due Uno… ed ecco il solito inseguirsi dei famigerati video-coccodrillo di commiato all’ultimo artista passato a miglior vita perché così fan (si noti la valenza polisemantica e al 50% anglofona) tutti. Che Rip, più che per acronimo di “Rest in peace”, sembrerebbe stare per “Ripetere” appuntato.
Perché poi “va’ e insegna agli angeli a suonare la chitarra e/o il piffero e/o il clarinetto…”
Cinque Quattro Tre Due Uno (il conto alla rovescia è appena un po’ più lungo)… ed ecco pronti i pe-santi inquisitori a smascherare l’ipocrisia della famelica abitudine combattendola con altrettanto cospicua dose della propria (quand’anche non fossero pronti al copia-incolla dell’eperchennòggiggidalessio, che ormai passerà più tempo con le mani strette sui suoi attributi partenopei che sulle grazie plastificate della giovane compagna).
Così, la solita scolastica acredine antipopulista trasforma ogni cosa nello sconfortante confronto tra guelfi e ghibellini, guardie e ladri, Mazzola e Rivera, ipocrisia e ipocrisia.
Una sorta di anatocismo delle ipocrisie che mi pare abbiano tonalità diverse ma la medesima matrice: provare la propria presenza, che è cosa ben diversa dal manifestare la propria essenza.
Esserci, che è cosa ben diversa dall’Essere (né probabilmente ciò che scrivo è scevro da tale sentimento!). Null’altro che, banalmente, partecipare, in fondo. Tutto nello stesso calderone. Mescolato secondo dosi ormai mandate a mente.
E se ognuno vivesse la morte come crede, quando può permetterselo, giacché deve farlo come può, quando non ti lascia margine di scelta?
Ci sono morti che arrivano, ti schiaffeggiano, ti sconvolgono, ti devastano. Avresti diritto al silenzio del dolore, se non fossi troppo impegnato a prendertela con la vita puttana, col dio che ha deciso a capocchia.
Sono le morti private, quelle vissute al buio della propria solitudine; quelle che ogni tanto devi far finta di dimenticare, ma che ti s’apprenderanno dentro, sostanze nocive pronte ad avvelenarti appena resterai di nuovo da solo con loro.
Poi ci sono morti sentite per strada, che arrivano inattese, e che forse non sarebbero così dentro di te da concederti il diritto di piangerle, ma nelle quali si ritrova un senso d’ingiustizia immanente tale da rendere quasi condivisibili delle quote di quel dolore: di quando un ragazzo buono lascia la sua famiglia dopo qualche spicciolo di vita perché così ha voluto scherzarlo il tempo, appena dopo che lui aveva provato ad usarlo per dare un sorriso e un domani ai suoi bimbi.
Sono le morti private che diventano pubbliche: si solleva quella pietas popolare che vorrebbe sollevare chi quel diritto al pianto ce l’ha, e ce l’avrà anche quando noialtri ce ne saremo dimenticati, che vorrebbe sostenere le loro membra senza più vigore, i loro volti senza più espressione. Che vorrebbe partecipare, nel senso più pieno ‘sta volta, ma probabilmente può solo, e ancora, limitarsi ad esserci, facendo attenzione, se si può, a non pestare il limite sottile tra sostegno ed invadenza, gentilezza e violenza.
E poi ci sono morti pubbliche, che arrivano e ti paiono strane, semplicemente.
Non hai diritto al dolore, alle lacrime. Solo al ricordo, che però è tuo e di nessun altro. Perché ad alcune persone è stato concesso di lasciar qualcosa a chi vuol prenderla senza imprigionare la propria volontà in un testamento olografo, e perché questa eredità si può prenderla senza sottrarla ad altri.
L’espressione del genio di alcuni di loro è divenuta patrimonio del nostro vissuto, rendendo riconoscibile chi non si è mai conosciuto. E facendo calare lieve il miracolo della malinconia, per non poter più toccare una persona che non abbiamo mai toccato.
Sono le morti pubbliche che diventano private, perché, quando passava per radio “Resta cu mme”, io ricordo esattamente dov’ero, e perché credo fosse nel mio primo concerto dal vivo che ho sentito “Quanno chiove”.
Pino Daniele era un grande musicista. E cantava la singolarità di Napoli come potesse essere quella di ogni vicolo del mondo. Un posto tanto privato quanto pubblico, come la morte.
E questo basta per volerlo ricordare. O per non farlo.
L’ archivista
Mack Smith sotto la Treccani. Boccaccio dopo Petrarca.
L’odore è quello inconfondibile del sapere ingiallito dal tempo.
Affiancare copertine e pagine imbevute d’inchiostro, spostare la polvere e mettere storie in fila.
Tra enciclopedie e classici fare i conti con la propria umana finitezza che, ahimè, rende quasi solo un esercizio estetico sistemare la ricca libreria di famiglia. Salvo poche chicche di cultura da ingurgitare nei ritagli.
Platone, Catullo. Porgo quella mensola ai classici, quello spazio alle biografie.
Vespa? Sarà stato un regalo…
Freno spropositi d’ego che mi suggerirebbero di destinare un cassetto alla mia produzione e lo riempio con qualche fortunato dell’economica Feltrinelli. Camilleri vicino a Goethe mi sembra esagerato. E che ci fa Nietszche trai contemporanei? Già… scusa Friedrich…
Qui ci va della narrativa. Qui i mattoni di diritto. Qui rovescio quello che avanza dei saggi.
Ci vorrebbe un buon archivista…
Mio padre diceva che non era il marito di sua sorella, mio zio, sospinto dall’orgoglio di un’amicizia che aveva attraversato più anni del suo vincolo parentale.
Mio zio era un’anima gentile, prigioniera della sua onestà, che rovistava tra le sue carte e le altre cose in sospeso cercando di darne un ordine. Ogni tanto s’imbatteva in qualche vinile di musica buona.
Il mio egoismo puro ne avverte spesso la mancanza, perché mi dava sempre ragione, come del resto facciamo quasi tutti con tutti, quando esponiamo opinioni in reciproca compresenza. Lui però capiva quello di cui si parlava, ci andava dentro, sotto, toglieva la polvere, coglieva il senso.
Non so come funzionasse quel suo meccanismo fuori moda, ma a lui non interessava sentire: lui voleva ascoltare. Quasi una vocazione, nel limite sottile dell’essere interessato alle vite tutt’intorno alla sua vita, senza volerle disturbare. Attenzioni d’altro tempo.
Il tempo è andato via quando doveva essercene di più. Per sistemare, rilegare. Pagine, pensieri, sentimenti feriti.
E pensa te, dio o chi è che cazzo c’è, cosa invece se ne faranno di tutto ‘sto tempo concesso tutte queste persone che corrono, non dicono ma poi sparlano, gridano senza aver cura delle parole, pur di non ascoltare, di non ascoltarsi. E quanto tempo per le loro tracce, per la loro musica di bassa lega.
Sì, lo so che è un discorso stupido… lo so che mica si decide così, quanti giorni meritiamo…
Sì, lo so… lo so che ho ragione ma… ma che, lascia perdere… e lo so che potrei, me l’hai detto un giorno in un caffè… lo so che non mi manca niente per… non mi manca niente. O qualcosa sì.
Appena sveglio
Pur di sentirci adeguati accendiamo le luci su qualsiasi cosa promani dalla mediocrità.
Pur di sentirci accettati condanniamo il talento a mendicare attenzioni.
Dovrebbe esser giorno, stando a quanto rumore si fa.
Quando ormai è già ora, pur non sapendo di cosa, lavo via dal viso resti di cose taciute.
Riempio d’imbarazzo una camicia sgualcita,
Svuoto la vescica, abile saltimbanco, centrando la tazza senza mani.
Non uso più il pettine da quando so che ben pochi nodi tornano, ben pochi conti vengono.
Seguendo le riflessioni del mio impietoso specchio mi dipingo la giusta espressioni per confondermi, mentre continuo a frequentare assenze.
Chiudo una porta. Sbatto il portone.
Anche oggi non sono pronto…
Lettera al mio vicino
Gentile vicino,
è bene Lei, insieme a chi Le scrive, riconosca l’abilità della sua affabile bestiola a produrre dal suo minuscolo orifizio anale bisogni equamente distribuiti lungo il marciapiede che condividiamo, in sorprendente prossimità del portone che dà accesso alla mia umile dimora.
Ebbene.
Considerando che…
è la credoterza volta che, in infradito, calpesto, come dea fortuna vuole, quanto prodotto dal fulgido metabolismo dell’esserino oggetto della Sua responsabilità ex art. 2052 c.c.,
che…
stante fetore di morte tale da far supporre sia mandria di buoi o armamento di cavalli piuttosto che esile razza canina; fetore che, nonostante più tentativi d’accurata rimozione, si era sposato alle mie calzature preferite (prima le bianche, poi le verdone, indi le nere), a tal guisa da doverne gettare il paio (prima il bianco, poi il verdone, indi il nero),
e che…
ieri, pur avendo preso in sul meriggio il 2 del Cagliari di maestro Zeman al Meazza (quotato a 8), il sistemino ennesimo mi saltò fanculo in sulla sera, a 15 minuti 15 dalla fine del derby della lanterna – la matonna m’illumini, a tal proposito-, insinuandomi già reiterato dubbio circa quanto si dice del merdaiolo richiamo a quella gran puttana della dea sopra menzionata.
Ebbene.
Crede sia il caso di suggerire all’adorabile quadrupede un posto diverso ove profondere le sue attenzioni intestinali, o preferisce, nel rispetto del Suo amore quadrupede, come scrisse Stefano Benni, che noi ci si mobiliti con un tappo al pertugio ossuto della bestiolina quand’anche non sia il caso, più radicalmente, di destinare la stessa bestiolina, parlando di orifizi, al Suo, immagino, ben più generoso bucodiculo?
Ebbene. Mammata.
Era ieri
Come quando nelle tv in bianco e nero i colori ce li dovevi mettere tu.
Come quando l’eurovisione chiamava a raccolta l’intero isolato.
Era ieri.
O molto di più.
Accalcati accaldati dietro una finestra secondaria a sbirciare dentro una cucina d’un ristorante un vecchio 14 pollici.
Andrea Pirlo non interrompe la rincorsa, solo rallenta l’incedere e sfiora di pazzia la sfera di cuoio, ora docile, ammansita. Che ci si soffia dentro insieme per sconfiggere la calura e per spingerla oltre la linea d’uno sgraziato omone figlio della regina.
Il genio, il fuoriclasse fa la cosa più difficile nel momento più impensabile. Ti sgrana gli occhi e ti secca la bocca. E poi scompare, come fosse normale, senza infierire sulla tua sopravvenuta inabilità all’articolare suono.
Nessuna vittoria sportiva, non illudiamoci, cancellerà i brandelli di un popolo stremato dalla propria stessa malcoscienza.
Nemmeno però potrà mai esserci infamia che cancelli il genio umano, che si manifesterà puntuale, su una tela, dentro un libro, su di un rettangolo verde, sopra un marciapiede ogni volta che ne saremo dimentichi.
19.72
Ci sono atleti che, per le loro imprese, saranno ricordati come i grandi delle proprie discipline.
Ci sono atleti, i grandissimi, che con le loro gesta hanno impresso dei segni incancellabili nella storia di quelle discipline.
E poi ci sono atleti che sono diventati le loro discipline.
Quando nell’immaginario collettivo non c’è più quella disciplina senza il suo simbolo.
E, forse, nel suo simbolo, è la disciplina a poter sopravvivere a se stessa.
Giocare come Rivera.
Pedalare come Coppi.
Guidare come Ayrton.
E quando la disciplina sportiva è la regina di tutte, quando ripercorre un gesto atavico nato con l’istinto all’umana sopravvivenza, nell’uomo non si identifica solo la disciplina ma il gesto primordiale che la sussume.
Correre.
Come Mennea.
Tutti abbiamo corso come lui.
Scalzi. Controvento. Anche solo ad occhi chiusi, sorpresi con le braccia levate in segno di vittoria.
Pietro Mennea da Barletta si laurea in scienze politiche, scienze dell’educazione motoria, giurisprudenza e lettere. È autore di numerosi titoli pubblicati. È avvocato, commercialista, giornalista pubblicista. È baluardo scomodo nella lotta al doping prima della sua stessa esistenza burocratica.
Ha poco tempo, Mennea, tra tutto questo: gli restano solo 19 secondi e 72 centesimi.
Per percorrere 200 metri del tartan di Città del Messico.
Per sconfiggere il naturale razzismo della velocità.
Era il 1979.
D’allora, per 17 anni, più nessuno avrebbe corso come lui.
D’allora, per sempre, tutti avremmo corso come lui.